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Recensione ► Grizzly Bear: "Painted Ruins" (RCA, 2017)

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In qualche modo i Grizzly Bear non potevano che uscire con un album del genere: non solo perché con “Shields” si era già fatto un passo netto verso lidi art-rock, ma perché fare i conti con il pop contemporaneo significa integrare sempre più nel discorso elettronica e manipolazione sonora, dare corpo e profondità ai brani, flirtare con plurime ibridazioni black. C’è tutto questo in “Painted Ruins”, che sviluppa intensivamente (dunque in addensamenti verticali) quello che “Veckatimest” costruiva estensivamente in progressioni ardite e scrittura chamber. Eppure l’album della maturità dei quattro musicisti statunitensi (ormai tutti ampiamente over 30), nei suoi strappi relativamente radicali con il passato, ripropone il modus operandi di sempre: composizioni elegantemente cesellate, armonie complesse, songwriting che si snoda tra arrangiamenti fatti di continui cambi, di virate, di arzigogolati arabeschi (per quanto sommessi e meno appariscenti, più legati alla screziatura delle textures).

Esempio calzante di questa metamorfosi è la bella prova di delicatezze acustiche snocciolate in “Four Cypresses” che, apparentemente immobile, lascia tutta la complessità al formicolare dei dettagli, tra pennate di chitarra che si fondono agli svolazzi delle tastiere per poi abbandonarsi a un leggero arpeggio e infine stratificarsi in matassa vibrante di accordi saturi, con l’implacabile rullante di Christopher Bear a disegnare i tempi. Poi tutto si spegne, flebilmente, dopo quasi cinque minuti di continue variazioni. È ancora il drumming strutturante di Bear a imporre le sue cadenze alla successiva “Three Rings”, capace di esplorare inedite ampiezze sonore grazie all’addensarsi di chitarre espanse e strati di elettronica ambientale, per uno dei brani più belli di questo “Painted Ruins”.

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Tutto l’album si srotola unendo in una salda stretta (molto più salda di quella dello scorso “Shields”) elementi tipici della creatura Grizzly Bear uniti a nuove vesti e pose: si prenda il modo di far canzone -gentile, armonico, stralunato- di “Mourning Sound” (seppur subissato da linee imponenti di synth e passo motorizzato), la briosa “Losing All Sense”, versione potenziata di quanto si poteva ascoltare sui primi lavori (basso plastico, filastrocca dinoccolata, rarefazioni psichedeliche), il vorticoso baluginare di accordi di “Aquarian” (che ricorda, a tratti, i Timber Timbre sinistri del 2011), la saltellante e fragrante vivacità sincopata di “Cut-Out” (è ancora Bear che cuce e struttura, con le corde che seguono fedeli), fino alla straniante prova lounge/chillwave (in salsa Toro Y Moi) di “Glass Hillside”.


Non sempre tutto funziona alla perfezione, e qualche lungaggine superflua, qua e là, si trova ancora (penso alla soporifera “Systole”, o all’ultima “Sky Took Hold”, che indugia su territori già abbondantemente calcati lungo la tracklist, rivelando pericolosi limiti di inventiva da considerare per il futuro). L’ultimo lavoro dei Grizzly Bear, però, rappresenta un inaspettato scatto di vitalità, mostrando diverse strade percorribili. Sperando di non perdervi di nuovo: bentornati!

Recensione pubblicata su storiadellamusica.it

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