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Recensione ► Hurray for the Riff Raff: "The Navigator" (ATO Records, 2017)

alynda segarra the navigator review 2017
Alynda Lee Segarra ha da sempre dovuto fare i conti con la sua appartenenza etnica, mostrando come l’identità sia un fatto tutt’altro che scontato. Troppo bianca per essere riconosciuta come “diversa”, eppure troppo diversa per entrare non solo nelle fila del tipico modello wasp, ma anche in quelle della propria comunità portoricana. La Segarra adolescente preferisce così definirsi a modo suo, partendo dalla scena punk dei sobborghi newyorkesi, finendo col vagabondare per gli States, stabilirsi a New Orleans e fondare una band country-folk. Fino a “Small Town Heroes” (2014) i suoi Hurray for the Riff Raff abbracciano così un classico sound Americana, colmo di tinte bluegrass, country e folk: un suono estremamente bianco, per usare una classificazione da retriva race music. La questione etnica, però, negli Usa (e non solo) esiste, e si è manifestata con forza proprio durante i mandati di quel Presidente dipinto come l’uomo del riscatto per milioni di “coloured” americani.
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Cinque dischi d'aprile


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Un anno un po' spento musicalmente? No, per niente. Chiunque dica questo, di solito, non ha semplicemente avuto tempo di seguire il fottio di uscite che, ogni mese, affollano il mercato musicale.
La verità è che star dietro a tutto è una vera impresa, e la ricettività dipende da mille fattori contingenti (l'umore, gli impegni vari, ecc.). Per questo ogni tanto occorre fare ordine, passare in rassegna quanto ascoltato e aggiornare l'elenco con nuovi album trascurati o apparsi all'improvviso. 
 È stato così con marzo, che ha tirato fuori dal cappello il bellissimo lavoro degli Hurray for the Riff Raff, con febbraio, da cui ho recuperato il notevole "Ensen" della tunisina Emel Mathlouthi, e così sarà con aprile, che sicuramente dispenserà ancora gemme nascoste.
Intanto, però, facciamo il punto di quanto, ad oggi, ho potuto apprezzare. Ecco una breve rassegna dei cinque album che più mi hanno coinvolto in questo aprile 2017.
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Pre-Raphaelite fruitcakes: gli Shelleyan Orphan e il lato romantico del dream pop (monografia)

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Creatura ineffabile, quella dei Shelleyan Orphan. Uno dei tanti gruppi di culto che hanno fugacemente -e senza far troppo rumore- calcato le scene indie nella seconda metà degli anni Ottanta, pubblicando due dischi tra il 1987 e il 1989, più un ultimo nel 1992 (senza contare l’estemporaneo quarto lavoro, frutto di una reunion prima della scomparsa di Caroline Crawley nel 2016).

Un gruppo di culto, si diceva, perché fuori dagli schemi, sempre e comunque: folk romantico e chamber e, in seguito, dream-pop contaminatissimo, il tutto interpretato secondo toni classici e forbiti (a partire dal monicker, omaggio al tanto amato poeta romantico Percy Bysshe Shelley), nel riuscito tentativo di integrare in un discorso pop una strumentazione insolita, ingombrante, composta da violoncello, clarinetto, corno, oboe, tambura, fagotto. Una mosca bianca nel panorama indie di quegli anni, dunque. Chi abbia mai affrontato l’ascolto del loro primo “Helleborine”, però, non può che essere rimasto folgorato dall’aura magica del duo di Bournemouth.

In occasione dell’uscita del boxset pubblicato dalla One Little Indian, contenente i primi tre album del duo (più un dvd e una raccolta di b-side, demo e bonus track) è il caso di tornare sui passi leggeri di Jemaur Tayle e Caroline Crawley.
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Vuoi andare a scuola, oggi?

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Oggi vuoi andare a scuola?
Che domanda. Certo che voglio andare a scuola! Devo, no?
Sì, sì, era solo per chiedere…
Sei proprio sicuro che vuoi andare a scuola?

Che strano, oggi, mio papà. Sarà un segno di premura, forse. Dopo la campagna, abituarsi alla città non è stato facile. Con tutto quello che è successo in questi anni, poi... Dall’inizio della guerra ad oggi, non so nemmeno contare quante bombe siano cadute su Torino. L’ultima pochi giorni fa, all’inizio di aprile. Sono morte 70 persone.
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