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[BEST OF] : Il mio 2017 in 20 album

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Come si può sintetizzare, musicalmente parlando, il 2017? Se il 2016 sarà ricordato come "l'anno della morte" (visto il cumulo di dipartite e lutti), l'anno giunto ormai al termine è per me inclassificabile, difficilmente inquadrabile all'interno di un percorso lineare, di una tendenza stilistica predominante.
Da un lato, infatti, assisto ad una progressiva "rarefazione" e perdita di peso specifico del gusto pop, incapace di rapprendersi in una "cultura" condivisa, ma sedimentato in comparti plurimi. Dall'altro constato un deciso appiattimento delle linee editoriali dei principali magazine online: le classifiche sono dominate, una volta giunto il momento di tirare le somme, dai soliti nomi, con poche variazioni.

E in Italia? Fatta eccezione per una limitata (e, mi pare, ininfluente) fetta di appassionati e critici, l'ascoltatore medio si balocca ancora con una proposta mainstream composta da datati artisti nazionali (basti guardare la Top10 degli album più venduti della FIMI), mentre il Festival di Sanremo non conosce crisi e X Factor continua a proporre un dubbio concetto di talento e innovazione.
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Tassonomia essenziale del disco giusto, di quello sbagliato, e cenni di critica improvvisata

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Più volte, in quanto improvvisato critico musicale (leggasi appassionato di musica al quale piace parlare dei dischi che ascolta, checché ne dica l'abusato aforisma di Frank Zappa), mi sono trovato a ragionare sul metodo utilizzato per estrapolare dall'ascolto una qualche forma di giudizio, oltre che alla liceità stessa dell'espressione di un parere.

Una prima precisazione (o un alibi?) riguarda quella che mi sembra una delle caratteristiche della pop music, la quale, per essere capita, non sembra necessitare per forza di una conoscenza tecnica da parte dell'ascoltatore: il suo linguaggio è prevalentemente "storico", la sua qualità è un'espressività tendenzialmente democratica, dove le componenti chiave sono standardizzate e a misura non solo dell'ascoltatore incompetente (quale il sottoscritto), ma in una certa misura anche del musicista incapace di suonare (sono molti gli esempi di band messe su da musicisti improvvisati). Espressione di idee sotto forma di suoni, quindi, prima che di "musica". 
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Recensione ► Mount Kimbie: "Love What Survives" (Warp, 2017)

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Lo si diceva poco tempo fa: tra i protagonisti della stagione dubstep, il duo londinese dei Mount Kimbie si distingueva fin dal principio per la sua grande capacità di ibridazione, per la risoluta volontà di stare fuori dagli schemi. A partire dai primi EP l’evidente vocazione era infatti quella di andare oltre, di superare ogni stringente confine di genere. Già future garage, quindi, quello consacrato con l’esordio datato 2010, così splendidamente in bilico tra left-field pop (per usare un termine generico capace di abbracciare i diversi ingredienti del sound) e le tipiche atmosfere Uk bass allora in voga.
Con questo nuovo episodio lo strappo è di nuovo netto, radicale, tanto da far pensare, più che ad un balzo in avanti, ad un curioso (retromaniaco, direbbe qualcuno) guardarsi indietro. La musica di “Love What Survives” appare meno digitalizzata e modernista, le componenti elettroniche sono integrate in un vasto frasario dove convivono bassi post-punk, sintetizzatori analogici, ritmiche motorik, chitarre sfibrate, stravaganza arty. Siamo di fronte ad una maniera rétro di intendere il synthpop, come se a suonare fossero gli OMD, o i Joy Division, per intenderci.
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Una canzone - "Albero" (UYUNI, da "Australe", 2014)

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Come scrivevo nel 2014, l'uscita di "Australe" dei riminesi UYUNI ha rappresentato per me una grande sorpresa: la padronanza di linguaggi insoliti per la tradizione pop italiana (l'american primitivism), unita a intelligenti dosaggi post-rock (genere ad alto rischio di sbrodolamento), faceva del secondo disco del trio un gioiello di forza espressiva ed estro poetico.

C'è però una canzone in particolare, in quel lavoro, che continua a stupirmi per il perfetto equilibrio tra le sue molteplici componenti.
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Dubstep. Dall'inizio.

 Niente è più difficile da padroneggiare delle varie correnti e sottocorrenti dalle quali il dubstep ha preso forma, così come è impresa ardua monitorare come si deve quello che il genere ha a sua volta tramandato come eredità, lasciando tracce in svariati generi musicali, diventando tanto estemporaneo (e riconoscibile) elemento di decorazione ritmica, quanto impalcatura complessiva sulla quale erigere i brani.

Fatto sta che, fino a pochi anni fa, il dubstep era IL principale fenomeno della Londra underground, dotato di un proprio santuario di alfieri e di tratti estetico/sonori riconoscibili, capace di passare da fenomeno di nicchia ai lidi mainstream. 

Proverò a tracciare la sua identità in modo "empirico", a partire dai primi esemplari dati alle stampe, tirando fuori dall'ascolto l'identikit di una delle più fervide e interessanti correnti degli ultimi anni.
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Recensione ► Grizzly Bear: "Painted Ruins" (RCA, 2017)

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In qualche modo i Grizzly Bear non potevano che uscire con un album del genere: non solo perché con “Shields” si era già fatto un passo netto verso lidi art-rock, ma perché fare i conti con il pop contemporaneo significa integrare sempre più nel discorso elettronica e manipolazione sonora, dare corpo e profondità ai brani, flirtare con plurime ibridazioni black. C’è tutto questo in “Painted Ruins”, che sviluppa intensivamente (dunque in addensamenti verticali) quello che “Veckatimest” costruiva estensivamente in progressioni ardite e scrittura chamber. Eppure l’album della maturità dei quattro musicisti statunitensi (ormai tutti ampiamente over 30), nei suoi strappi relativamente radicali con il passato, ripropone il modus operandi di sempre: composizioni elegantemente cesellate, armonie complesse, songwriting che si snoda tra arrangiamenti fatti di continui cambi, di virate, di arzigogolati arabeschi (per quanto sommessi e meno appariscenti, più legati alla screziatura delle textures).
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Recensione ► alt-J: "Relaxer" (Infectious, 2017)

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Rallentare. Questo, forse, hanno pensato gli alt-J dopo la sovraesposizione degli anni passati. Un disco fatto più di vuoti che di pieni, il loro ultimo “Relaxer”, privo delle dinamiche mirabolanti che caratterizzavano le scorse prove (per quanto già “This Is All Yours” apparisse scricchiolante e incerto). Questa volta, però, l’impressione è di avere a che fare con un tentativo di messa a lucido di vecchie outtake: ogni dinamismo, ogni segno di eclettismo in sede di arrangiamento e composizione è sacrificato a favore di un mood piatto, calmo e disteso, dove al minimalismo degli arrangiamenti si unisce un senso della composizione sonnacchioso, privo di vitalità, per otto brani che privilegiano tessiture larghe e ritmiche statiche.
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Funghi

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Vedete le lamelle? Guardate le lamelle, guarda anche tu Marzia, che ogni tanto mi ci cadi ancora, sulle lamelle: tutte convergono verso il margine del gambo, visto? Ma non come quelle sub-libere, quelle del fungo appena passato in rassegna; queste vanno a congiungersi più giù, scendendo in lunghezza sul gambo, come per abbracciarlo. Vero Marzia? Questa è una Galerina marginata e potreste trovarla tra il muschio, oppure sui tronchi morti di pini e conifere in generale. Potreste raccoglierla, nessuno ve lo impedisce. Scherzo, Marzia. Fate attenzione, cari soci, non raccoglietela, perché il fungo in questione è uno dei più velenosi che esistano, ed è facile confonderlo col chiodino o col piopparello. La sua assunzione comporta dolori addominali, nausea, diarrea, fino alla morte tra atroci sofferenze. Niente di carino, no no! Vero Marzia?

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Recensione ► Offa Rex: "The Queen of Hearts" (Nonesuch, 2017)

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Avrebbero potuto chiamarsi “The Decemberists & Olivia Chaney”, in fondo. E invece no. La scelta del nuovo nome non solo suggella la differenza qualitativa del progetto, ispirato al british folk-rock di Fairport Convention e Steeleye Span, ma rimarca anche i pesi relativi delle varie componenti: non Olivia Chaney come semplice vocalist, ma un vero e proprio scambio di ruoli tra lei e i Decemberists, prestati a band di supporto. È la Chaney che conduce, la sua voce che viene lasciata sola in più di una occasione, lei che conferisce ai brani la credibilità in grado di rendere l’album tanto riuscito. Eppure lo spirito collaborativo è altrettanto forte, e lo è fin dall’inizio della storia, cominciata con un tweet di Colin Meloy -capace di innescare la scintilla che avrebbe portato ad un tour comune- e giunta a questo “The Queen of Hearts”, omaggio appassionato alla tradizione folk britannica, qui riscritta, reinterpretata, rivitalizzata secondo il gusto del revival anni Sessanta-Settanta.
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Sessantacinque-Sessantanove: il meglio dei Sixties, secondo me.

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La classifica dei 200 migliori album degli anni Sessanta pubblicata da Pitchfork è piuttosto controversa: da diversi anni la storica webzine sembra lanciata in un dubbio tentativo di riscrittura della storia pop in chiave black, operazione certamente lecita ma incapace di coinvolgermi e convincermi fino in fondo.

Ci possono essere centinaia di storie della musica, questo è il fatto. Perciò ho deciso di fare un personalissimo e innocuo tentativo: quali sono i dischi che, per me, rappresentano al meglio gli anni Sessanta?

Procederò in questo modo: toglierò dal mucchio il jazz (lo conosco troppo poco e non mi è mai piaciuto accostarlo al pop), partirò dalla seconda metà del decennio (che continuo a trovare di gran lunga più significativa e ricca: è a partire dal '65 che tutto cambia), cercherò infine di considerare qualche artista appartenente a scene diverse da quella britannica o statunitense (ma senza esagerare, la cosa richiederebbe un capitolo a parte).

▶ Ed ecco qui, il meglio degli anni Sessanta in 50 dischi secondo me.
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Recensione ► Ten Years After: "Ten Years After" (Deram, 1967)

ten years after cover art 1967
Ten years before, nel 1956, Elvis Presley esordiva con il suo album omonimo: per questo, nel 1966, Alvin Lee decise di cambiare il nome del suo precedente gruppo. Con i Jaybirds il quartetto -appassionato di rhythm and blues e rock’n’roll- aveva percorso i primi anni Sessanta secondo uno schema consueto: dallo Star Club di Amburgo (come i Beatles) alla Londra in fermento della psichedelia, degli hippie, del Marquee, dove la band divenne uno dei nomi ricorrenti del 1967, arrivando addirittura ad aprire l’esibizione della Jimi Hendrix Experience tenutasi l’11 novembre. Bazzicando tra un Jazz Festival e i locali dell’UFO Club, i Ten Years After rappresentavano, nel 1967, una sorta di archetipo delle componenti base della musica sessantiana, per un sound che univa blues, sfumature psichedeliche, stacchi jazz, virtuosismo chitarristico.

L’esordio del 1967, prodotto da Mike Vernon e Gus Dudgeon per la Deram, è una sorta di “Disraeli Gears” più posato e, pur non avendo nulla di paragonabile -intellettualmente- con le grandi sperimentazioni e innovazioni dell’epoca, rimane una prova impeccabile, capace di rivelarsi ancora oggi frizzante, fresca, scattante, scritta e interpretata benissimo.
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New new new (...) wave: il breve - ma intenso - rinascimento del nuovo rock britannico (2008-2013).

Non molti anni fa, a Londra e dintorni, si faceva largo una scena tanto entusiasmante quanto effimera, tanto effimera da non meritare neanche - nonostante tratti stilistici piuttosto omogenei - un nome (e un nome se lo meritano tutti, basti pensare che per l'ondata precedente, quella che riprendeva e attualizzava il post-punk e il garage rock, si era scelta la pessima etichetta di nu-new wave).
Il primo interrogativo, quindi, è proprio relativo alle supposte similitudini in grado di giustificare un accomunamento: il Guardian si poneva la stessa domanda recensendo uno degli album cardine di questo "rinascimento", parlando di un pop "un po' più strano, un po' più espanso", concludendo che "for the purposes of music journalism, though, three bands is a scene". Bene così, quindi.

bloc party intimacy album cover
Che qualcosa stesse cambiando lo si capiva già nel 2008: i Bloc Party pubblicavano "Intimacy", un album duro e intenso, contaminatissimo di elettronica, post-punk, urticanti stratificazioni sonore, volumi impattati, strutture contorte e frenetiche (nonostante alcune splendide ballate). Qualcuno liquidò la cosa come "l'ennesima virata elettronica dell'ennesima band indie", ma c'era qualcosa di più. Si tendeva a lavorare non solo sulla resa sonora e sul songwriting, ma anche sulla profondità delle texture, sulla ricerca di soluzioni compositive nuove, stranianti, dagli strati in reverse alle accumulazioni di synth, fino all'uso al contempo rumoristico e ambientale delle chitarre.
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Andare verso l'alto

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Il vento lambisce la tazza e la fa gemere sottilmente, disperdendo nell’aria il suo suono sordo. La sera si trascina appresso un profumo che pare scivolare da lassù, dalle vette nude sulle cui sommità ancora fiammeggia il bagliore di un sole freddo, impresso sulle rocce colorate di un arancione acceso, vivo, fosforescente.
Stringo la tazza con le mani, finisco il liquore forte che ha catturato gli odori dei pini e dei fiori che circondano la mia piccola baita di legno scricchiolante. Capita, a volte, di veder gocciolare ancora la resina dalle travi che sostengono il tetto, come se il legno fosse ancora vivo e sanguinasse la sua linfa, dispensando aromi balsamici, irrorando il suo nettare colloso in cicliche fasi di rigonfiamenti e contrazioni. Come un respiro. Forse sono questi movimenti che la notte tormentano il silenzio, gonfiando l’intera casa e facendole parlare un linguaggio irregolare e scomposto, eppure in qualche modo rispondente all’ambiente intorno dove tutto fischia, soffia, ulula, schianta.
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Recensione ► Shabazz Palaces: "Quazarz: Born on a Gangster Star" + "Quazarz vs. the Jealous Machines" (Sub Pop, 2017)

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È sempre difficile entrare nel mondo sonoro degli Shabazz Palaces: il loro sci-fi hip-hop è un incompromissorio impasto di elettronica “cloudy”, di blocchi timbrici scomposti, di flussi apparentemente non irrelati, di flow astratti. Il rischio è quello di fermarsi alla facciata nerd, freddamente calcolata, della proposta. Eppure ogni volta tocca ricredersi, almeno parzialmente: nel sound di Ishmael Butler e Tendai Maraire c’è qualcosa di più, una tensione estatica che unisce le parti, una sensibilità estetica -ecco- che aggiunge fascino e solidità alla materia a prima vista disaggregata.

Questa volta, però, Butler e Maraire, mettono ulteriormente alla prova i loro ascoltatori. Doppio album, concept spazial-fantascientifico in due episodi: la storia dell’emissario Quazarz -non così diversa da quella di Navita, per quanto il tema portante, qui, siano le nuove tecnologie- si dipana lungo il primo “Quazarz: Born on a Gangster Star” (dato alla vita in due settimane con l’aiuto del produttore Erik Blood) e il gemello “Quazarz vs. the Jealous Machines” (dalla gestazione più lunga, prodotto da Sunny Levine), due album separati e allo stesso tempo inscindibili, quindi da analizzare come parti di una stessa operazione concettuale (e commerciale). Per questo è preferibile riunire le riflessioni sui due capitoli in un unico scritto.
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Recensione ► Green On Red: "Gravity Talks" (Slash Records, 1983)

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Dovette sembrare un'operazione reazionaria, nell'effervescente panorama musicale dei primi anni '80, veder spuntare gruppi come i Green On Red. Un po' meno reazionaria sembrò forse l'uscita di "The Days of Wine and Roses" dei colleghi Dream Syndicate, più legati a certe innovazioni stilistiche e a movenze direttamente collegate alla new wave e al post-punk.

I Green On Red invece pescavano dal roots più puro, da quel “americana” desertico e parodisticamente redneck, seppur accelerato e modernizzato, condizionato dall'impossibilità di sfuggire totalmente dalle sonorità della nuova onda e colorato da un disinvolto e aggraziato approccio "flower power".
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Recensione ► Beach Fossils: "Somersault" (Bayonet, 2017)

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Si potrebbe parlare di “teoria della convergenza” per band come EZTV, Real Estate, The Drums, DIIV, Surfer Blood, Hoops, Wild Nothing: un’incredibile vicinanza stilistica che, sfruttando matrici jangle per creare una matassa di soffice e contemporaneo dream pop, ha favorito un avvicinamento, ha creato un dialogo -spesso e volentieri mediato unicamente dalla musica- tra queste diverse realtà. Un processo che, a mio modo di vedere, non può che vedere citati i Beach Fossils come apripista: dal loro esordio omonimo del 2010, consacrato ad un freschissimo beach pop, quelle coordinate hanno iniziato a contaminare una bella fetta di indie americano (con una buona componente legata a Brooklyn).

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Dischi di mezzo 2017

Arrivati a metà anno è tempo di racimolare quanto ascoltato per una prima, parziale, classifica del meglio del 2017. Poche parole, spazio ai dieci album che hanno colpito nel segno e che, probabilmente, saranno ancora presenti nella classifica di fine anno.

1) Emel - Ensen (Tunisia, Partisan
► Arabic Pop, Art Pop, Electro


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Recensione ► White Reaper: "The World's Best American Band" (Polyvinyl, 2017)

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La migliore band americana del mondo”? Guai a prenderli troppo sul serio, i White Reaper, punk band intrisa di sonorità pop americane, radicate sottopelle in tutta naturalezza, come si trattasse di elementi ereditari. Eppure il quartetto di Louisville non va nemmeno sottovalutato: il loro secondo disco è un convinto e febbrile concentrato di energia, riff formidabili e melodie destinate a ficcarsi in testa e non uscire più.

Rispetto all’esordio, il sound della band si ibrida ancora di più, divertendosi a giocare con componenti plurime, tutte unite da uno sfrigolante abbraccio power pop, per una sorta di versione meno manifestamente istrionica degli Orwells.
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Proudhon revisited

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Da un po' di tempo a questa parte un nuovo soggetto politico-culturale sta tentando di prendere piede nel desolato, frantumato, polverizzato e disarmato contesto italiano. I "Circoli Proudhon", disseminati lungo tutto il territorio, organizzano incontri letterari, cineforum, momenti di riflessione su storia, politica, economia, cultura. Il tutto nel nome della "dissidenza" e della "controcultura", contro un esteso e minaccioso "pensiero dominante". 
Tra i riferimenti più in vista, Gramsci.

Cosa sono a questo punto i Circoli Proudhon, e a quale pensiero sono legati? Il Circolo Proudhon nasce come casa editrice nel 2014, e rappresenta il "progetto parallelo" dell'Intellettuale dissidente, quotidiano online nato nel 2011. Il Circolo si organizza infine sul territorio grazie alle sue diramazioni territoriali, le quali sono concepite come veri e propri organi operativi dotati di precisi obiettivi, tra cui quelli di "fare egemonia" e "favorire la rapida circolazione del pensiero in rivolta”.
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Recensione ► Hurray for the Riff Raff: "The Navigator" (ATO Records, 2017)

alynda segarra the navigator review 2017
Alynda Lee Segarra ha da sempre dovuto fare i conti con la sua appartenenza etnica, mostrando come l’identità sia un fatto tutt’altro che scontato. Troppo bianca per essere riconosciuta come “diversa”, eppure troppo diversa per entrare non solo nelle fila del tipico modello wasp, ma anche in quelle della propria comunità portoricana. La Segarra adolescente preferisce così definirsi a modo suo, partendo dalla scena punk dei sobborghi newyorkesi, finendo col vagabondare per gli States, stabilirsi a New Orleans e fondare una band country-folk. Fino a “Small Town Heroes” (2014) i suoi Hurray for the Riff Raff abbracciano così un classico sound Americana, colmo di tinte bluegrass, country e folk: un suono estremamente bianco, per usare una classificazione da retriva race music. La questione etnica, però, negli Usa (e non solo) esiste, e si è manifestata con forza proprio durante i mandati di quel Presidente dipinto come l’uomo del riscatto per milioni di “coloured” americani.
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Cinque dischi d'aprile


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Un anno un po' spento musicalmente? No, per niente. Chiunque dica questo, di solito, non ha semplicemente avuto tempo di seguire il fottio di uscite che, ogni mese, affollano il mercato musicale.
La verità è che star dietro a tutto è una vera impresa, e la ricettività dipende da mille fattori contingenti (l'umore, gli impegni vari, ecc.). Per questo ogni tanto occorre fare ordine, passare in rassegna quanto ascoltato e aggiornare l'elenco con nuovi album trascurati o apparsi all'improvviso. 
 È stato così con marzo, che ha tirato fuori dal cappello il bellissimo lavoro degli Hurray for the Riff Raff, con febbraio, da cui ho recuperato il notevole "Ensen" della tunisina Emel Mathlouthi, e così sarà con aprile, che sicuramente dispenserà ancora gemme nascoste.
Intanto, però, facciamo il punto di quanto, ad oggi, ho potuto apprezzare. Ecco una breve rassegna dei cinque album che più mi hanno coinvolto in questo aprile 2017.
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Pre-Raphaelite fruitcakes: gli Shelleyan Orphan e il lato romantico del dream pop (monografia)

shelleyan orphan monografia recensione matteo castello
Creatura ineffabile, quella dei Shelleyan Orphan. Uno dei tanti gruppi di culto che hanno fugacemente -e senza far troppo rumore- calcato le scene indie nella seconda metà degli anni Ottanta, pubblicando due dischi tra il 1987 e il 1989, più un ultimo nel 1992 (senza contare l’estemporaneo quarto lavoro, frutto di una reunion prima della scomparsa di Caroline Crawley nel 2016).

Un gruppo di culto, si diceva, perché fuori dagli schemi, sempre e comunque: folk romantico e chamber e, in seguito, dream-pop contaminatissimo, il tutto interpretato secondo toni classici e forbiti (a partire dal monicker, omaggio al tanto amato poeta romantico Percy Bysshe Shelley), nel riuscito tentativo di integrare in un discorso pop una strumentazione insolita, ingombrante, composta da violoncello, clarinetto, corno, oboe, tambura, fagotto. Una mosca bianca nel panorama indie di quegli anni, dunque. Chi abbia mai affrontato l’ascolto del loro primo “Helleborine”, però, non può che essere rimasto folgorato dall’aura magica del duo di Bournemouth.

In occasione dell’uscita del boxset pubblicato dalla One Little Indian, contenente i primi tre album del duo (più un dvd e una raccolta di b-side, demo e bonus track) è il caso di tornare sui passi leggeri di Jemaur Tayle e Caroline Crawley.
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Vuoi andare a scuola, oggi?

liberazione torino resistenza 1945 partigiani racconto
Oggi vuoi andare a scuola?
Che domanda. Certo che voglio andare a scuola! Devo, no?
Sì, sì, era solo per chiedere…
Sei proprio sicuro che vuoi andare a scuola?

Che strano, oggi, mio papà. Sarà un segno di premura, forse. Dopo la campagna, abituarsi alla città non è stato facile. Con tutto quello che è successo in questi anni, poi... Dall’inizio della guerra ad oggi, non so nemmeno contare quante bombe siano cadute su Torino. L’ultima pochi giorni fa, all’inizio di aprile. Sono morte 70 persone.
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Recensione ► Jake Xerxes Fussell: "What in the Natural World" (Paradise of Bachelors, 2017)

Jake Xerxes Fussel, alum 2017 recensione



Continua la riscoperta della tradizione folk americana da parte di Jake Xerxes Fussell, anche se questa volta sembra che il ragazzone del Sud (con quel suo secondo nome così esotico, suggestiva ipotesi di un legame tra diverse mitologie) abbia aggiunto al tutto un pizzico di personalità in più. 

Non che i brani dell’esordio di due anni fa non fossero rivisitati a dovere: semplicemente, questa volta, Fussell si scopre più meditativo e assorto, maggiormente disposto a lasciarsi andare in divagazioni strumentali, lavorando su sfumature e impasti di colore che sanno più di presente che di passato.
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John Fahey sarebbe fiero di voi. I primitivisti americani del nuovo Millennio

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John Fahey
L'American Primitivism è un genere che mi ha sempre affascinato moltissimo. Fondato, come recitano i manuali, da John Fahey, personaggio incastrato tra il mito e la miseria, lo stile primitivista è caratterizzato da una rilettura della tradizione folk rurale americana in chiave "raga". Le composizioni primitive erano lunghe, oniriche, suite di chitarra acustica suonata prevalentemente in fingerpicking, madide di sentori esotici, di arabeschi vibranti, di dilatazioni che sarebbero poi state il pane quotidiano della scena blues-psichedelica della seconda metà degli anni Sessanta.

Tra i pionieri del genere alcuni chitarristi intenti in un'opera di vera e propria trasfigurazione dell'espressività tradizionale: il sound diventava espressione di un immaginario astratto più che una polverosa testimonianza di vita terrena. A contare, più che la tecnica, erano proprio le visioni che la musica era capace di stimolare.
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Carta igienica

racconto carta igienica matteo castello
Sono seduto sul cesso e rido, rido, e nel frattempo faccio scorrere con decisi colpetti di polso il rotolo di carta igienica, quel batuffolo soffice e morbido, il quale gira, gira e gira, disperdendo a terra il rullo di doppi veli che si accumulano l’uno sull’altro, strato dopo strato, poco distanti dalla tazza. Sono felice, e rido, rido…

La mattina ho affrontato la sveglia presto con un’insolita leggerezza. Certo, quella cassa che mi aspettava immersa nelle luci ancora semi-spente del discount, quell’aria immobile e ancora ammorbata dai profumi dei detersivi per pavimenti irrorati da addette alle pulizie anonime e sfuggenti (le incontro sempre all’uscita, tengono gli occhi bassi e scorrono silenziose oltre le porte scorrevoli, svanendo nell’alba), per non parlare dei primi clienti e l’abitudine al monotono “bip” dei codici a barre riconosciuti dai sensori: tutto mi risultava sgradevole come al solito. Ma sapevo di poter sopportare.
E così ho fatto, ho sopportato.
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I Real Estate che ho in mente (non sono quelli di "In Mind")

real estate in mind 2017 recensione matteo castello

I Real Estate, si sa, fanno sempre primavera: non solo perché, come lo scorso "Atlas", anche il nuovo "In Mind" è uscito a marzo, ma anche perché il sound della band è da sempre caratterizzato da un approccio solare e brioso, un jangle-pop profumato e dreamy, di originaria ispirazione surf-pop, ideale per le limpide giornate di sole. Un marchio di fabbrica, insomma, che dal 2009 non smette di deliziare. Due gli assi portanti della band: il songwriting di Martin Courtney e gli arrangiamenti ariosi di Matt Mondanile.

Ora, a dir la verità, non mi sarei mai aspettato che il successore dell'acerbo -seppur interessante- esordio (quel fumoso lavoro omonimo che seguiva la scia di band come Beach Fossils e Desolation Wilderness, impegnate, sul finire degli anni zero, a mescolare indie e surf-pop) potesse anche lontanamente assomigliare a "Days", morbido coacervo di melodie cristalline e finissimi intarsi chitarristici. Eppure, a partire da quel lavoro, i Real Estate si confermavano come una delle più brillanti manifestazioni del pop alternativo americano, degni eredi di Feelies e Felt.
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Semper Femina, Semper Laura Marling

laura marling album cover 2017 review

Laura Marling potrebbe benissimo appendere la chitarra al chiodo (cosa che, fortunatamente, non farà), avendo già all'attivo due capolavori di moderno folk britannico. A soli 21 anni la musicista inglese pubblica "A Creature I Don't Know", capace di spazzare via la concorrenza in un sol colpo, affermandosi come una delle più autorevoli autrici folk in circolazione (in un panorama dove, a dominare, erano soprattutto le correnti "barbute" indie, meglio se americane: regnavano allora, dando un'occhiata alle classifiche di un campione scelto di webzine, Bon Iver, Fleet Foxes e Kurt Vile).

Nonostante lo scarso riconoscimento nelle classifiche del 2011, il terzo lavoro della Marling fu molto apprezzato dalla critica, che ne riconosceva la maturità e la forza, confermando il netto passo in avanti rispetto ai lavori precedenti.
"A Creature I Don't Know" rappresenta un coraggioso sforzo di indipendenza, recuperando una tradizione perlopiù ignorata dai giovani (quella del british folk, ma non solo) e di non facile confronto: la Marling riscopre un'interpretazione personalissima dei brani, quasi teatrale, giocando -a livello stilistico- con accordi astrusi, arrangiamenti jazz e chamber, equilibri di trame acustiche e dirompenze elettriche, oltre che con nomi tutelari di alto livello (Joni Mitchell, Sandy Denny, Roy Harper, Bert Jansch, Richard e Linda Thompson, Jimmy Page).
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Dall'Austria con furore: la "Magic Life" dei Bilderbuch

recensione album bilderbuch magic life 2017

Conquistato, appena uscito, il secondo posto nelle classifiche nazionali e sceso ora a una dignitosa quarta posizione, il nuovo album degli austriaci Bilderbuch, "Magic Life", prova a bissare il successo del meraviglioso predecessore, vera bomba di pop sperimentale, mash-up estremo di generi, linguaggi e stili.
Allora, con il bellissimo "Schick Schock", la band stupiva cambiando completamente registro rispetto al massiccio nu-rave di "Die Pest Im Piemont" (che già si distingueva per caparbietà compositiva e stazza sonora), virando verso i territori inesplorati di un fulminante incontro/scontro tra matrici alt-r&b, funky, electro e indie-rock, per pezzi che avevano l'aria di schizofreniche operazioni di cut and paste, di ironici motteggi degli stilemi più patinati in voga nel mainstream. In poche parole: un capolavoro.
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Marco Polo: la tempesta quieta di Flavio Giurato

copertina marco polo flavio giurato

"Marco Polo" è un disco teorico: l'esploratore del "Milione" diventa, più che un uomo da raccontare con occhi da biografo, uno spunto di (auto)analisi, un'ipotesi da validare. Marco Polo è un problema. "Marco Polo" è un disco esoterico, anche: i significati sono celati da una sintassi frammentata ed ermetica, istintiva ed essenziale, condotta a colpi secchi di sensazioni/annotazioni giustapposte, senza particolari nessi logici. Allo stesso tempo, però, tutto sembra frutto di una profonda meditazione, di una prassi rigorosa.
Fa specie, allora, pensare che un disco così ineffabile e astratto (sperimentale, quindi), sia stato "un disco fatto con l'industria, costato tantissimo con delle partecipazioni internazionali", come racconta Flavio Giurato intervistato da Fabio De Min. Un'industria che raramente ha accettato di avventurarsi in lidi tanto poco sicuri, di farsi carico di estremizzazioni sonore del calibro di quelle messe in atto qui da Giurato.
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Musica sinfonica in discoteca. I Baustelle, l'amore e la violenza

Baustelle recensione 2017 matteo castello
Tornati in studio a quattro anni di distanza dal magniloquente, esagerato, fastoso "Fantasma", i Baustelle trovano una più posata maniera collocandosi a metà strada tra la maturità autoriale di "Amen" e il synthpop giovanile de "La moda del lento".

In "L'amore e la violenza" Bianconi sembra abbandonare gli eccessi dei capitoli precedenti (anche "I mistici dell'Occidente" non scherzava), facendo a meno dei continui rimandi biblici/mitologici da crisi di mezza età, dell'ipertrofia testuale delle liriche, recuperando invece una sorta di estetica della banalità (si prenda un verso come "che sciocchezza la guerra", o il testo di "La vita") che ritrova l'espressività allusiva e velenosa degli esordi, tornando finalmente a bilanciare i due elementi costitutivi della canzone: più rilievo alla musica e ruolo maggiormente funzionale e accessorio del testo (ché nella musica pop le liriche servono a poco, giusto a dare argomenti ai giornalisti delle pagine culturali dei quotidiani, anche se a volte con i testi ci si vincono i Nobel).
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"Nemmeno per la felicità". Il folk secondo Julie Byrne

articolo julie byrne recensione matteo castello
Ma che brava Julie Byrne
Nata a Buffalo ma da sempre in vagabondaggio lungo gli States, la giovane (26 anni) cantautrice fa un netto passo in avanti rispetto al precedente "Rooms With Walls and Windows", già capace di mettere in scena le caratteristiche che -debitamente perfezionate- fanno brillare il nuovo "Not Even Happiness", pubblicato dalla newyorkese Ba Da Bing! Records.
Un senso dello spazio esteso, etereo, una matrice vaga dove ondeggiano e tremolano le chitarre acustiche, dove risuona la voce grave e melodiosa, che risente tanto di umori soul quanto di influenze folk. Se allora tutto questo era proposto in chiave free/pasticciata, oggi la creatura della Byrne sboccia e profuma.
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Giovanni Lindo Ferretti: di forma e di sostanza

Giovanni Lindo Ferretti è una presenza anomala e confortante. La storia è nota a tutti: passato dal punk al rock d'autore, è finito con l'incarnare la figura di mistico e devoto montagnardo, diventando oggetto di interesse più per il pensiero che per la musica.

Presenza anomala, dicevo, perché apparentemente contradditoria: il suo porsi come cattolico tradizionalista dopo anni di "punk filosovietico" ha scatenato la confusione e lo sconcerto in un pubblico abituato a concepire in senso poco elastico il rapporto dei musicisti con le loro idee politiche. La sconfessione dell'artista dopo dichiarazioni non in linea con le aspettative è uno sport nazionale: si pensi alle critiche mosse a Guccini dopo il suo supporto al Pd, o al villipendio di Benigni a causa di posizioni non approvate dal tribunale dell'ortodossia. E allora Ferretti come traditore, come fuori di testa, come poveraccio (ma capace, nonostante tutto, di affollare i concerti).
Una presenza confortante, quindi, perché dinanzi alla tendenza di semplificazione imperante, Ferretti si è sempre posto con fare educatamente sprezzante e irrisorio. Credo che ci sia della lucidità, della voluta provocazione, nel rapporto di Ferretti con la comunicazione sui media: consapevole della natura appiattente della televisione, ad esempio, Lindo Ferretti ribadisce tesi lapidarie e fondamentaliste da Ferrara. Immagino i sorrisi di fronte alle reazioni scandalizzate.
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L'arte della cover

l'arte della cover articolo matteo castello
Le cover possono essere interpretate come appropriazioni indebite, come esercizi di stile (penso alla celebre "Misirlou", pezzo obbligato per le surf band degli anni Sessanta), oppure come geniali terreni di gioco per mettere alla prova l'abilità dell'interprete. Sgombrando il campo dalle discutibili cover band da pub (per quanto possano essere un primo modo per approcciarsi alla musica), l'interpretazione di brani altrui può essere una vera e propria forma d'arte: infondere la propria personalità in brani celebri è una bella sfida, impresa forse più spinosa della composizione di pezzi originali. In pochi riescono nell'impresa.
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Viaggiare nel tempo con i Cheap Trick

cheap trick matteo castello orwells
Il pop è un linguaggio che ha la capacità di far entrare in contatto epoche passate mettendo tutto sullo stesso piano: quello del presente di chi ascolta. Un dialogo senza cesure tra epoche diverse, un "ritorno al futuro" in tempo reale (e senza effetti distorsivi).

Ascoltavo, ad esempio, i Cheap Trick di "Heaven Tonight" (anno 1978) e il viaggio è stato interessantissimo. Il power pop, si sa, è caratterizzato dal profondo rapporto con le costantemente rinnovate armonie beatlesiane (e più in generale con il pop rock di fine anni Sessanta), ma qui le cose si fanno più complicate.
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Téchne

racconto matteo castello téchne
Siamo nell'era gloriosa della pace illimitata. Della pace fredda. Della noiosissima pace. “Un ciclo riempiamo gli arsenali, un ciclo riempiamo i granai”. Mai è stato tanto tremendo riempire i granai, penso. E mentre penso il mio sguardo indolente segue una linea nel cielo, la scia bianca di un aereo che passa a velocità supersonica. Involucro alato ad alta tecnologia che vince la gravità e sfida i limiti, e nel contempo adempie ad un compito quanto mai primitivo: spostare persone da un punto A ad un punto B. La tecnologia è, e sempre sarà, al servizio di bisogni primordiali, votata all'ancestrale ticchettio biologico che porta con sé la fame, il desiderio, la violenza. La tecnologia cela la morte con l'inganno di un possibile infinitamente vasto, assoluto.
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Il ritorno dei Foxygen

articolo matteo castello foxygen hang
I Foxygen (Sam France e Jonathan Rado) hanno sempre giocato con uno smaccato revivalismo. Ascoltare i loro album significa immergersi in un corso accelerato di musica pop: si parlavano linguaggi glam e psychedelic-pop in "We Are the 21st Century Ambassadors of Peace & Magic", mentre in "...And Star Power" si masticavano soul, psichedelia, rhythm and blues e soft rock, mescolando tutto in un confuso turbinio spaziale.
La creatività non è mai mancata, peccato che la ricetta sia sempre risultata incompleta, fin troppo ludica e incapace di riflettere pienamente le potenzialità del duo.
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Grillo e il M5S: per una critica

articolo matteo castello movimento 5 stelle grillo
Il Movimento 5 Stelle è diventato in poco tempo una delle principali forze politiche italiane, scuotendo il dibattito pubblico e cavalcando una montante ondata critica diretta contro la classe politica italiana, considerata corrotta e non rappresentativa (la cosiddetta casta, principale avversario del Movimento). Quella del M5S rappresenta un'esperienza anomala: guidato da un leader carismatico (Beppe Grillo), legato a doppio filo ad una realtà aziendale (la Casaleggio Associati), pervaso da una retorica che mischia elementi progressisti ad altri talvolta reazionari, fondato su una singolare concezione di democrazia diretta, l'esperimento del “non-movimento” capace di conquistare importanti posizioni istituzionali e di mobilitare, in più occasioni, grandi folle, è ancora nel pieno del suo sviluppo. Una realtà in evoluzione, quindi, impegnata a fare i conti con il suo mutato peso (e il suo rinnovato ruolo) all'interno del panorama politico. Esistono però alcune caratteristiche che connotano, fin dalle origini, il Movimento, caratterizzandone l'identità e la proposta: una su tutte la critica della democrazia rappresentativa in nome di forme dirette di esercizio del potere da parte dei cittadini. In nome di questa presunta “superiorità democratica” il M5S sfida tutte le altre forme di associazionismo politico presenti in Italia. Quanto è democratico il Movimento di Beppe Grillo? La questione è tutt'altro che scontata, e dietro l'apparenza sembra celarsi una realtà piuttosto controversa.
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“Taking fun seriously” - Cos'è la Pop music?


La musica pop è oggi tanto pervasiva da far apparire quantomeno straniante la domanda “cosa è il pop?”. Ogni ambito è permeato, spesso senza che la cosa richieda la nostra attenzione, da composizioni legate alla categoria comunemente identificata come “pop”, divenuta tanto estesa e onnicomprensiva da risultare vaga e indefinita. Eppure, non tutto è pop: per quanto molte barriere siano cadute e continuino a cadere, esistono precise distinzioni, di natura quasi istintiva, tra un brano di musica classica e un pezzo di Justin Bieber. Distinzioni non solamente di natura musicologica, ma legate alla funzione, al linguaggio, al pubblico, alla forma espressiva, economica e culturale del pop. Che cosa differenzia, quindi, la musica pop da altre forme musicali? Quali sono le sue principali caratteristiche? Domande che, vista la vastità del tema, mi sono spesso trovato a dover eludere, pur scrivendo da molto tempo di musica pop e ascoltandone a tonnellate.
Adesso però occorre fare ordine, restringere il campo, tentare di delimitare il campo.
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Ricordati di respirare

racconto matteo castello ricordati di respirare
L'acqua era fredda, immergendosi. E, mentre si immergeva e la pelle si tendeva intirizzendosi, pensava che quella era stata una giornataccia.
Il rito della piscina dopo il lavoro -rito al quale si era dimostrato devoto da dieci anni- aveva sempre assunto i tratti di una purificazione. L'acqua scioglieva i muscoli, il movimento scuoteva il corpo e gli ridonava vigore. Era a tutti gli effetti quello che si chiama un toccasana. Eppure quel giorno era distratto. Non poteva non esserlo, visto che aveva perso tutto. A dire la verità, però, era già distratto quella mattina, quando per un attimo era passato col rosso al semaforo dell'incrocio poco distante da casa. Se ne era accorto in tempo, aveva inchiodato facendo fischiare rumorosamente le gomme della sua Mercedes. Aveva la testa altrove. Arrivato in ufficio si sentiva stanco, spossato. Eppure quello era un lavoro per gente attiva, attenta, veloce di pensiero. L'intuito, gli avevano detto, lo devi coltivare, lo devi rendere operativo, efficiente. L'intuito, qui, deve essere al servizio del profitto, non un azzardo. Una tecnica, non un'arte. E lui di intuito ne aveva sempre avuto pochissimo, compensandone la mancanza con una devozione ed una minuziosità fuori dal normale. Il risultato era stato, fino a quel giorno, duplice: nessun errore e una montagna di stress.
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