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The Adverts - Crossing the Red Sea with The Adverts (2011 Reissue, Fire Records)

"Despite -or maybe because of- the hostile shouting from the audience between numbers, and our own appalling performance for the first half of the gig, suddenly we started to pull together. It was a typical Adverts moment”" - T.V. Smith

Così Tim “T.V.” Smith, frontman degli Adverts, ricorda uno dei concerti del periodo d'oro della band. Primi mesi del 1978, "Crossing the Red Sea With the Adverts" è uscito da poco. Roundhouse, Londra. Un concerto che rivive -in parte- grazie ad un vecchio registratore piazzato dal nuovo batterista John Towe all'insaputa del gruppo. Un registratore davvero vecchio, che richiedette una delicata procedura di “tape baking” per stabilizzare gli ossidi di ferro sulla superficie del nastro (avete presente i "Disintegration Loops"?). Niente da fare: la prima parte della registrazione era fottuta (“"Non mi è dispiaciuto”", scrive T.V. Smith raccontando di una prima metà del concerto brutalizzata dalle urla degli skinhead e dai lanci di bottiglie ed oggetti vari). Ecco però che a partire da metà esibizione tutto inizia ad andare nel verso giusto: la band ingrana, la qualità sonora è accettabile e il concerto fila nel migliore dei modi.

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Train Kept A-Rollin

racconto Matteo Castello Gene Vincent
Il treno colpisce la macchina con tutta la sua forza, tanto da farla prima sobbalzare come per un grande spavento e poi capovolgere su di un lato e qui, sospinta in un complesso frasario di scintille sulle rotaie, accartocciarsi progressivamente, finendo col ruzzolare esausta sul ciglio di un fossato erboso. Roba da applausi. Il conducente non ha nemmeno il tempo di capire che cazzo stia succedendo: il colpo è secco e violento, lo finisce subito. Il resto -cosa accada a quel torso ingiubbettato, a quei jeans stretti e lisi, a quegli stivali di pelle nera con le punte consumate, a quelle labbra cristallizzate all'insù, tra lo schifo e lo stupore- lo immaginerete benissimo da voi.
Succede però che l'urto innesca una strana reazione di circuiti elettrici: il volume dell'autoradio si impenna e sale, tanto da rendere quasi inavvicinabile -più che per i resti, il fumo, la paura, la benzina che comincia a formare rivoli e pozze infiammabili- l'auto sbriciolata. Avrebbero scritto: “il conducente moriva ascoltando a tutto volume uno dei suoi artisti preferiti, Eddie Cochran, fonte di ispirazione come per la vita così per la morte”.
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Money - Suicide Songs (Bella Union, 2016)


I Money come teatro drammatico personale, come un palco su cui sfoggiare velleità interpretative altisonanti, intrusive, anche ingombranti. Certo, la scenografia, fin dal buon “The Shadow of Heaven”, faceva la sua bella parte, ma sempre con la funzione di inchinarsi alle esigenze di un Jamie Lee bisognoso di potersi muovere in un ambiente rarefatto, liquido, impalpabile. Una bella prova per un complesso rock: rendere la propria musica trasparente eppure tesa alla declamazione, al crescendo patetico. Una sorta di liturgia romantica dove trovavano uguale spazio le prestazioni a cappella del frontman -parti isolate, lasciate ad echeggiare nel vuoto- e le sonorità moderne di certo art-pop d'ambiente.

Una scommessa aperta, dunque, che finalmente possiamo valutare alla luce del tardivo seguito “Suicide Songs”, un lavoro che se da un lato riesce nell'operazione di sublimare ancor più gli elementi dell'esordio portando così al limite la tendenza estatica e vaporosa sopra descritta, dall'altro lascia maggior spazio (ed è un bene) al songwriting. Quindi sì, una dirompente ma disincantata emozionalità (un tempo c'era il bisogno dichiarato di essere parte di qualcosa, di unirsi ad un sentire collettivo più o meno reale, oggi questa esigenza sembra esser venuta meno: “Standing in the doorway, laughing, Singing songs to myselfcanta Lee in "I'm Not Here", reclamando una gelosa intimità), tesa però a dar vita ad uno “spectacle of beauty” più strutturato, volto non ad atterrare l'ascoltatore (ci penserà agli ascoltatori Lee?), ma ad elevarlo, piuttosto.
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