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[BEST OF] : Il mio 2016 in 20 album

David Bowie, classifica album 2016 Matteo Castello
Bye bye, Bowie
Musicalmente parlando, il 2016 ha proceduto a ritmo alternato. Ad un lento, cadenzato susseguirsi di buonissime uscite, si è contrapposta una sequela di tanti, troppi, dolorosi strappi: la morte di David Bowie, poi quella di Prince, e ancora quella di Leonard Cohen, Paul Kantner, Keith Emerson, Pierre Boulez (ecc.). Scomparse che hanno listato a lutto lo svolgimento di un'annata che, nonostante tutto, ha visto imporsi sulle scene anche diversi vivi, spesso giovani, purtroppo oscurati dal peso ingombrante delle dipartite eccellenti. Insomma: la vita continua.

Cosa succede nel mondo del pop? Mentre si consolida la vena "poptimista" (il mainstream fuso inestricabilmente con l'universo indie), e nei primi posti delle classifiche continuano a figurare i protagonisti della "nuova" ondata black (Kanye West, Solange, Chance the Rapper, Frank Ocean, Beyonce, A Tribe Called Quest) e gli immancabili mostri sacri (Radiohead, Nick Cave, Iggy Pop), la vera novità -per quanto mi riguarda- è quella dell'irruzione del Giappone in terra occidentale. Sebbene non apertamente sdoganato, il j-pop fa capolino in album come "Beyond the Fleeting Gales" dei Crying e "Moth" dei Charlift, mentre realtà nipponiche come Metafive e Gesu no Kiwami Otome si propongono come portabandiera di una realtà musicale ricchissima e perlopiù oscura.
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Recensione ► Eagulls: "Ullages" (Partisan, 2016)

recensione Eagulls, Ullages, Partisan, 2016
Poco, pochissimo è rimasto di quella bellissima e fugace ondata di band che, durante i primi anni Dieci, rileggevano e mescolavano liberamente -dopo la sbornia wave revival e nu rave- scorie di post-punk ottantiano, shoegaze e dreampop. Ne uscivano album notevoli (penso agli esordi dei Chapel Club, dei Toy e degli S.C.U.M, alla costante evoluzione degli Horrors, a gemme sottovalutate come Airship e Lowline, a followers del calibro di Younghusband e Patterns), prodotti da band che si sarebbero presto sciolte o dedicate ad altro, lasciando il campo a un più vasto (ma meno interessante) sottobosco di revivalisti shoegaze. Non esiste nemmeno un nome per descrivere quella proto-scena di difficile delimitazione (il filo rosso che univa le varie band, ognuna libera di interpretare a suo modo la materia privilegiando questo o quell'ingrediente, era piuttosto vago, legato più ad un “sentire” comune che ad uno stile codificato). Eppure gli Eagulls, partiti da tutt'altre coordinate, sembrano oggi raccogliere e portare avanti quel discorso lasciato aperto.
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Lisa Germano - Geek the Girl (4AD, 1994)

Lisa Germano, recensione Geek the Girl, 4AD, 1994
They don't like women to be frightening, you know?
(“The Muse interview with Lisa Germano”, ottobre 1995)

 Mi sono sempre ostinato a voler scorgere più o meno plausibili punti di contatto tra il terzo album di Lisa Germano e il vuoto lasciato dal colpo di fucile con cui Kurt Cobain -giusto sei mesi prima della pubblicazione di questo “Geek the Girl”- ha dato il suo estremo addio al mondo. Non riesco a non notare una certa continuità tra il lato più introverso e inquieto del grunge e il capolavoro della musicista americana, capace di traghettare in altra guisa (la materia, qui, è un chamber folk che germina tra ruggini alt-rock) molti degli stilemi di quella stagione: c'è la provincia (la Germano è di Mishawaka, Indiana), con la sua generazione masticata e sputata in una fine millennio de-ideologica, vuota e immobile (“songs for people who are stuck but they want to go somewhere else”), c'è la rudezza del sound, c'è un lirismo scontroso che fa dell'Io il baricentro privilegiato di generazioni spezzettate, frammentate, sole, senza collante (anche il cinema coglie lo spirito di questa nuova blank generation insoddisfatta e annoiata, si pensi agli adolescenti di film come “American Beauty” e “Ghost World”, o al girovago bohémien/nullafacente/naufrago di “Naked”).
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True Widow - Avvolgere (Relapse, 2016)

True Widow, Avvolgere, Relapse 2016 review
Che bello il suono sporco e sfrigolante, granuloso, dei True Widow. Una formula affinata nel tempo ma da sempre incentrata sull'accostamento tra densità granitiche di marca sludge, espansioni shoegaze e mesti pantani slowcore. Una formula semplice, tutta giocata sui riff distorti dell'accoppiata basso-chitarra, con il primo a gorgogliare e dettare la linea in primo piano e la seconda a lavorare sia sul rafforzamento della grana che sulle screziature armoniche (senza dimenticare, certo, l'incrollabile, roccioso sostegno della batteria). Minimalismo, sì, ma all'insegna di sommovimenti, di gorghi e spire, di addensamenti e lenti impaludamenti sonori. C'è sempre stato movimento, per quanto lento e viscerale, nelle composizioni della band texana.
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case/lang/veirs - case/lang/veirs (Anti-, 2016)

album case/lang/veirs, anti-, 2016
Neko Case e il suo cantautorato rock dal cuore country, k.d. lang e il suo classicismo intriso di rimandi a Nashville e Tin Pan Alley, Laura Veirs e la sua formula sbarazzina capace di infondere leggerezza indie ad una solidissima scrittura folk. Tre voci americane, molte sfumature, diversi approcci, variegati timbri. Tre distinte femminilità, anche. Quale idea migliore se non quella di unire queste differenze in un progetto comune? Detto fatto: “case/lang/veirs” (rigorosamente in minuscolo) è un lavoro corale, capace di valorizzare e al contempo equilibrare le tre personalità in un comune abbraccio, in un sentire condiviso (che comprende gli elementi country e americana, il richiamo ad un songwriting tradizionale che va da Frank Sinatra a Dolly Parton, da Judee Sill ai Jayhawks, il gusto da camera con cui si organizzano gli arrangiamenti).

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Troppi morti!

racconto matteo castello troppi morti
Quante persone sono morte sulla Terra? Intendo proprio dalla comparsa dell’uomo moderno. Mille miliardi? No, esagerati, mille no. Forse cinquecento?
 La stima -l’ho letta da qualche parte- è di 57 miliardi di persone vissute e poi, va da sé, morte, sul nostro pianeta. Non sembrano tante? Certo, non rispetto alla sparata di mille miliardi, ma dal mio punto di vista rimane comunque un numero eccessivo.
Il problema che condivido con quelli nella mia condizione, infatti, è il sovrappopolamento. E voi che vi lamentate dei 7 miliardi di vivi che minacciano il vostro spazio… ridicoli!
Il fatto è che le strade sono piene zeppe, è difficile trovare un cantuccio dove stare soli in santa pace, a volte non è possibile vedere ad un palmo dal proprio naso tante sono le persone che ti si accalcano davanti.
Persone, poi, non è propriamente il termine adeguato. Tra di noi ci chiamiamo “passati”. Diciamo: da quanto sei passato?, e così ricostruiamo biografie anche millenarie. Abitavamo la Terra prima, da vivi, e ora la affolliamo, senza gravarla di peso, da morti. Io sono passato da circa trent’anni. Non molto. Tutti mi dicono che col tempo mi abituerò a questo sovraffollamento, ma pensandoci non credo che sarà così. La popolazione del pianeta non è mai stata tanto numerosa: siamo diventati un miliardo solo nell’Ottocento, per arrivare al raddoppio ci sono voluti oltre cento anni. Dopodiché è iniziata la corsa alla crescita esponenziale: un miliardo in più di gente in media ogni dodici anni. Il succo del discorso, per farla breve, è che i morti aumentano di giorno in giorno e lo spazio da condividere resta sempre lo stesso.
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Post-punk revival 2001-2005: la new wave del terzo millennio

Con post-punk revival, più che ad una vera e propria scena, ci si riferisce alla sensibilità stilistica comune a molte formazioni "indie" nate a cavallo tra gli anni '90 e 2000, tutte influenzate -più o meno direttamente- dalla new wave di fine anni Settanta. Television e Wire, Joy Division e Gang of Four, Talking Heads e Josef K.: questi i riferimenti delle band americane e britanniche (e non solo) riunite in questa playlist.

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The War on Drugs - Lost in the Dream (Secretly Canadian, 2014)

copertina album Lost in the Dream, Secretly Canadian
"Slave Ambient", visto oggi, e visto soprattutto alla luce di questo "Lost in the Dream", acquista maggior peso: un disco che, di fatto, covava in forma nemmeno troppo embrionale tutti gli elementi che ritroviamo in fase matura nella splendida fatica di quest'anno. Allora, liberatosi dai rami secchi (leggasi Kurt Vile), Adam Granduciel faceva passi da gigante esprimendo tutta la sua incontenibile capacità autoriale e la sua verve sperimentale in uno dei grandi album di quel 2011. E sì, c'era un po' di kraut e un po' di Dylan, erano evidenti i legami con una canzone americana ben radicata nel DNA della band, ma a tutto questo faceva da geniale contraltare una vena psichedelica e ambientale fatta di strati su strati di synth e riverberi chitarristici.

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Allah-Las - Calico Review (Mexican Summer, 2016)

Allah-Las recensione Calico Review Mexican Summer
Gli Allah-Las -che nonostante qualche mail da parte di credenti offesi non hanno mai manifestato l’intenzione di cambiare nome- sanno fare una sola cosa, ma quella cosa la sanno fare benissimo. Il nuovo lavoro della band losangelina, “Calico Review”, rimane ben piantato nel terreno del solito 60s revival sgargiante e purista (seppur filtrato attraverso riletture Paisley anni Ottanta), eppure il tutto è interpretato con una freschezza e una naturalezza di cui pochi, oggi, possono vantarsi. Il risultato non è tanto quello di riportarci indietro agli anni Sessanta, ma al contrario di illuderci che questi -come si scriveva per il loro “Worship the Sun”- non siano mai realmente terminati. Un sogno dorato, un confortante vaccino contro una città sempre più preda della “rivalutazione” causata dai fighetti della Silicon Valley, “plastic people coming here chasing plastic dreams”. La musica, quindi, come necessario rimedio per “imparare a convivere con queste stronzate”.

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Polska Nowa Fala: gli anni Ottanta in Polonia

republika nowa fala new wave polonia
"Nowe sytuacje / nowe orientacje".

Nuove situazioni, nuovi orientamenti: lo esclamava ossessivamente Grzegorz Ciechowski nel primo brano dell'album d'esordio dei suoi Republika, tra le molte band protagoniste della scena new wave (nowa fala) polacca degli anni Ottanta. Una scena strepitosa, capace di rivaleggiare in espressività e inventiva con i colleghi britannici.

Non la conoscete? Ecco 15 brani per una prima infarinatura.

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Preoccupations - Preoccupations (Jagjaguwar, 2016)

recensione album Preoccupations Jagjaguwar 2016
Diciamolo, “Viet Cong” era un gran bel nome per una band. Eppure lo sfacciato politically correct contemporaneo, così infarcito di raffazzonato senso comune e becero revisionismo (le vittime che passano per carnefici e viceversa), ha finito col prevalere, costringendo Matt Flegel -dopo diversi show cancellati proprio a causa dell’oltraggioso moniker- a cambiare nome. Una svolta non particolarmente traumatica, vista la mancanza di qualsiasi motivazione ideologica dietro la scelta di chiamare gli ex-Women come la resistenza comunista durante la guerra del Vietnam, anche se affrontata con qualche mea culpa di troppo (“non sapevamo, non ci rendevamo conto”, eccetera). Il risultato, poi, è stato un rafforzante feedback positivo: alla domanda “chi sono i Preoccupations?”, la risposta non può che essere “quelli che prima si chiamavano Viet Cong”. Doppio centro.

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Marc Augé e i Nonluoghi: per una critica

Augé nonluoghi eleuthera critica
Il “nonluogo” è diventato, nel tempo, uno dei più pervasivi ed abusati neologismi contemporanei. Un concetto dotato di grande potere evocativo, capace di esprimere sinteticamente tutte le caratteristiche (o le non-caratteristiche) di un mondo spogliato di socialità, dominato da luoghi funzionali dove vigono pseudo-relazioni fredde, anonime e precarie. Il centro commerciale, l’aeroporto, il treno ad alta velocità, l’autogrill: una pluralità di contesti accomunati da un’unica e generica parola.

Cosa intende Marc Augé parlando di “nonluogo”?
La prima necessità di Augé è quella di dare legittimità ad una “antropologia del vicino” fondata non tanto sull’esaurito campo di ricerca di mondi lontani ed esotici, quanto sulle caratteristiche proprie di una nuova modernità occidentale, definita da Augé “surmodernità”.
Il mondo contemporaneo andrebbe letto secondo il metro dell’eccesso e della “sovrabbondanza”. Sovrabbondanza di avvenimenti (e dunque di tempo) causata da una “storia che accelera” (“che ci insegue”, nelle parole di Augé) e a cui non riusciamo a stare dietro, con la conseguente difficoltà nel dare un senso complessivo ad un presente fatto di avvenimenti globali in costante proliferazione.
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Amazing - Ambulance (Partisan, 2016)

copertina album Ambulance degli Amazing
Si pone sulla fortunata e ispiratissima scia del capolavoro “Picture You” questo “Ambulance”, quinto lavoro degli svedesi Amazing. Durata -e quindi accessibilità- a parte (quarantacinque minuti di musica contro l’ora abbondante dello scorso album) poco cambia: semmai la band approfondisce la formula collaudata con il precedente LP, concentrandola in una più composta sintesi.

Una proposta, quella della band di Christoffer Gunrup, lavorata a cesello negli anni, raffinata a partire dalle prime prove psichedeliche, passando per il folk rock intimista di “Gentle Stream”. Nessuna trasformazione radicale, piuttosto un lento addensarsi dei giusti ingredienti, un paziente esercizio di equilibrio. Se però “Picture You” era l’album “esclamativo”, quello dell’affermazione e della creatività (la scrittura era complessa e frizzante, a tratti prog), “Ambulance” rappresenta la matura affermazione di un percorso, sposando una forma canzone che respira la stessa aria dei tutelari Red House Painters, che fa uso del vasto repertorio stilistico conquistato nel tempo (si pensi alla bella e fitta trama di “Blair Drager” -che qui fa la parte della passata “Fryshusfunk-, capace di chiamare in causa quarant’anni buoni di musica pop) con dosato senso della misura.
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Bello, il nucleare Baj

dipinto Enrico Baj periodo nucleare
Enrico Baj, Due bambini nella notte nucleare, 1956












Bello, il nucleare Baj
più dei suoi mostriciattoli, sai?
Vero, nei suoi variopinti arazzi
generali ed eroi faceva a pezzi:

Grande provocazione, bel significato,
ma le albe atomiche
e gli omini disintegrati
quelli sì, mi han stregato!

Farsi beffe dell'abisso col colore
che grande idea, quale ardore!
E poi, render bello l'orrore...

Adesso però usciamo da questo museo
fuori c'è ancora il sole
prendiamo un drink, dai
(Bello, comunque, il nucleare Baj!)
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Rihanna - ANTI (Westbury Road, 2016)

copertina album Rihanna, Anti
Fare come voglio io”, per una come Rihanna, ha un significato piuttosto particolare: uno stuolo di produttori e collaboratori da capogiro, ad esempio. E poi il contratto milionario stipulato con la Samsung , che ha acquistato un milione di copie dell’album conseguentemente distribuite in free download su Tidal (“delle moderne strategie di marketing”, dove gli album si smaterializzano diventando marginali all’interno di una più ampia strategia promozionale dove conta creare la più diffusa “awareness” possibile, e dove l’acquisto da parte degli ascoltatori del supporto o del file digitale non è più cosa necessaria per ottenere il disco di platino). Perché uno pensa a Rihanna che si mette nella sua cameretta a strimpellare la chitarra e a smanettare sul laptop per poi regalare altruisticamente l’album ai fan. Certo. E invece, ovviamente, no.

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Esiliati

foto profughi racconto esiliati










C'è in questa stanca marcia
una traccia di quell'umanità
che negli approdi infausti
lasciammo a tocchi
Ma, non del tutto persa,
rimane nei vagiti dei poppanti
che non vedono che il sole
e cercano le cose solite
con dita e bocche e occhi
O negli affanni di chi spera
e cerca negli sguardi appoggi saldi
E i luoghi non sono altro
che i passi di chi cammina
Così noi imprimiamo i calchi
delle nostre ombre scomode
sui paesi che ci masticano e sputano
e le parole degli altri
saldano le nostre bocche storte
ora mute, ora squillanti
E il mare non ci inghiotte:
ci abbraccia,
prima di altre terre,
prima di altri passi,
prima delle parole che significano
Casa
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Uyuni - Australe (Tafuzzy Records, Stop Records, diNotte Records, Bleu Audio, 2015)

copertina album Uyuni Australe
Il post-rock, categoria vaga “come le stelle dell'Orsa”, si può grossomodo dividere in due filoni: uno, quello del rock strumentale tout court, perlopiù di matrice chitarristica, con qualche intervento di fiati ed elementi da camera vari; l'altro, quello più contaminato, frutto di incontri inusuali e arditi tra elettronica, folk, dub, post-punk, kraut, eccetera. Pur senza negare i meriti della prima corrente, è stata la seconda ad aver sfornato alcuni tra i nomi più autorevoli degli ultimi decenni: si pensi a David Grubbs, Jim O'Rourke, Glenn Jones, David Pajo. Tutta gente capace di spaziare tra mondi, congiungendo pop e avanguardia, forgiando linguaggi a metà tra l'astrattismo, il collage e il free-form. E proprio i Cul de Sac di Jones fanno al caso nostro: loro il merito di aver ripescato dal dimenticatoio uno dei grandi nomi del folk americano, quel John Fahey su cui mai si spenderanno troppe parole. Nel 1997 (a 30 anni da "Requia" e da "Days Have Gone By", per dire) veniva pubblicato "The Epiphany of Glenn Jones", che veicolava l'american primitivism del grande vecchio nella materia dronica della band di Boston.

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Perdita d'interesse

immagine mosca racconto castello
Perdo interesse con la stessa rapidità con cui mi appassiono alle cose. È un attimo: smetto di fare quello che stavo facendo fino a pochi istanti prima e mi fisso su una visione, su un dettaglio, su una domanda. I contorni della nuova configurazione del mio tempo, dopo essersi per un istante disposti secondo le priorità dettate da quelle seduzioni fugaci, si squagliano in un secondo. Allora mi trovo come stordito dall’improvvisa insensatezza di quell’interesse che fino a pochi istanti prima avevo creduto fondamentale. Le risposte alle mie domande presto si distaccano da ogni mio coinvolgimento e lo sguardo si perde in un languido sfumare, i dettagli che osservavo con tanta attenzione ritornano ad essere parte indistinta di quella realtà che mi fagocita emettendo un suono sordo, ovattato.
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Elliott Smith - Roman Candle (Cavity Search, 1994)

copertina album Elliott Smith
Roman Candle” è tutto quello che viene prima: prima della notorietà, del successo, dei tour mondiali, delle interviste e delle prime di copertina sulle riviste musicali. “Roman Candle” è un lavoro intimo, la testimonianza di una sensibilità che con gli Heatmiser non riusciva proprio a venir fuori, sovrastata da una corazza indie rock che non faceva per Smith, forse consapevole che tanto valeva lasciare il genere a giganti come Fugazi, Nirvana e Dinosaur Jr. E no, Smith non era un gigante, al contrario: timido, riservato, semplice, finito ad Hollywood come Gus Van Sant era passato dai suoi ritratti americani alternativi al mainstream di Will Hunting, in maniera improvvisa, fugace (per registrare il brano candidato all’oscar “Miss Misery” Elliott fu chiamato da Van Sant, a sua volta scelto da Ben Affleck e Matt Damon per la regia della loro sceneggiatura).

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"A Theory of Human Need". Una sintesi.


I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per, via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono” (K.Marx, L'ideologia Tedesca, cap.II, 1846)

Per una teoria
Len Doyal e Ian Gough, nel loro “A Theory of Human Need” (1991), si pongono l'obiettivo non solo di dimostrare l'esistenza di bisogni umani universali, ma anche quello di classificarli e misurarli. L'assunto dell'universalità di tali bisogni, assieme a quello della loro oggettività, si scontra con l'approccio soggettivista e relativista che, per gli autori, avrebbe portato all'egemonia, negli anni '80, della cosiddetta “nuova destra” (pg.1). La supremazia del mercato nel venire incontro alle preferenze soggettive, secondo l'assunto welfarista (o individualismo etico: “ognuno è il miglior giudice di se stesso e i connotati degli stati del mondo si esauriscono nella percezione che ne scaturisce per gli individui”, Acocella, 2007, pg.30), sarebbe stato il risultato legato a questa egemonia culturale: “for it the notion of objective need is groundless, then what alternative is there but to believe that individuals know what is best for themselves and to encourage them to pursue their own subjective goals or preferences? And what better mechanism is there to achieve this than the market?” (pg.1-2). 
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Il 2016 (finora) in 5 dischi

migliori album 2016 Castello
 1) Yeasayer - Amen & Goodbye (Mute)
Ritorno in gran spolvero per la band di Brooklyn, che finalmente trova un equilibrio tra la world music di "All Hour Cymbals" e il pop elettronico di "Odd Blood". Lavori creativi, quelli, ma non così ben congegnati. Qui invece convivono equilibrio e fughe in avanti. Ogni elemento trova un suo posto, come in posa (la copertina parla chiaro), animandosi però in una rappresentazione plastica dove alla scrittura (raffinata, centrata, di grande resa pop) si accosta un senso dell'arrangiamento storto, psichedelico, strabordante. Bentornati!

 
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Beni Comuni: l'equivoco Hardin


Una riflessione scritta nel 2013, in occasione della presentazione del libro "Contro i beni comuni. Una critica Illuminista" di Ermanno Vitale.

La prospettiva dei beni comuni, in particolare dopo il referendum del 2011 sull'acqua pubblica, è stata salutata come il nuovo paradigma su cui incentrare i più luminosi progetti di emancipazione umana. L'intuizione salvifica, il nuovo paradigma per una “narrazione” radicalmente alternativa. Il bene-comunismo, si è detto: Marx torna di moda! Ecco però che il presunto concetto passe-partout che avrebbe dovuto fornire l'emblema delle future lotte e le basi ideali per riunire le anime disperse della sinistra, rischia oggi di afflosciarsi proprio per la mancanza di argomenti convincenti. O, se non per la mancanza, per l'ambiguità e la vaghezza di tali argomenti. La ricerca di una narrazione non è cosa sufficiente, nonostante i proclami post-moderni di chi pensa che l'unica via per modificare la realtà sia quella di raccontarne un'altra. Senza solide basi, ogni narrazione rimane quello che è: un racconto, non la realtà.

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Profughi

racconto Matteo Castello Profughi
La luce che taglia l’oscurità, un fascio che penetra dalla finestra, dalle tendine appena scostate, il bagliore di un guizzo riflesso dal vetro incorniciato, il microscopico pulviscolo della stanza illuminato nel suo volteggiare. Un gesto cristallizzato. Sorrisi. Una mano e l’altra, intrecciate. Un ricordo serbato in un flash. L’abitudine quieta conservata a mo’ di reliquia, una certezza inossidabile di come la vita può essere stabile, consueta, serena. Poi le scosse, la fretta, giù per le scale, prendi quello che riesci, ma sbrigati, forza! Quella foto rimasta lì, sul comodino, a raccontare qualcosa di noi ai poveri cristi che si sarebbero avventurati in quelle stanze. Forse sarà gettata via come uno scarto di vite inutili, residue. Residui, questo siamo. Le facce nella fotografia non sono che pallide illusioni di eternità, l’abracadabra di un presente catturato nell’attimo migliore. Ora c’è solo un lieve dondolio, la brezza fredda, lo sciacquio delle onde sullo scafo precario, l’oscurità più assoluta. Mille voci in una, un gemito unanime. È notte.

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Santigold - 99¢ (Atlantic, 2016)

La sensazione di “pasticcio” la si ha fin dalla caotica copertina. Tuttavia, pur confermando l’iniziale sensazione, non c’è traccia di chincaglierie da quattro soldi (i 99 cents del titolo) nel terzo lavoro a firma Santigold, bensì una continua, vitale, frastornante, carica di mescolanze pop. Santi White gioca con tutta una serie di stilemi contemporanei, accostando senza soluzione di continuità elementi mainstream ad altri tipicamente indie, per forgiare un personale carioca che, nonostante una superficie scintillante e solare, serba sottopelle un’anima scura e ambigua, ben più approfondita e sfaccettata rispetto al precedente “Master of My Make-Believe”.

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The Innocence Mission - Glow (A&M, 1995)

recensione album Glow Innocence Mission
Tutto ha inizio nel 1989, con la pubblicazione dell'esordio "The Innocence Mission". Si tratta di un progetto acerbo, a metà strada tra la spigliatezza melodica di una Harriet Wheeler (The Sundays) e l'enfasi gonfia di certo sophisti pop. Quello che spicca è però il talento di Karen Peris, performer brillante e dotata, assieme al marito Donald, di un intuito melodico non comune. L'approccio al suono del produttore Larry Klein non ha niente a che vedere con la strada intrapresa -6 anni dopo- da "Glow", primo capolavoro della band di Lancaster. I suoni sono espansi, patinati, il basso roboante e le ritmiche '80s dominano su invadenti linee di synth e robusti aggiustamenti in fase di overdubbing. Nonostante tutto però, con pezzi come "Curious", riesce ad emergere una raffinata sensibilità melodica e una scrittura che lascia ben sperare. Con il successivo "Umbrella" (1991) le cose cambiano. E molto. Nonostante la permanenza di Klein in regia, la band sembra smarcarsi da ogni influenza esogena, liberando finalmente le proprie potenzialità. I buoni pezzi abbondano ("And Hiding Away", "Now in This Hush", "Beginning the World"), Karen Peris è più in forma che mai, la pulizia in fase di arrangiamento e scrittura aumenta, le composizioni sono dominate da buon gusto ed eleganza (non a caso si fa più evidente il contributo del chitarrista Don Peris, capace di un tocco unico).

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Verdena - WOW (Universal, 2011)

Ho sempre considerato il percorso dei Verdena come un ottimo esempio di maturazione progressiva, lineare e costante. Una carriera impeccabile, in una parola. In breve, con il primo album prevaleva un approccio alternative che univa la rabbia grunge al nervosismo dei primi Placebo. Con "Solo un Grande Sasso" si faceva un netto passo avanti dilatando ed irrobustendo le architetture sonore. La summa di questa ricerca trovava l'apice nello splendido e definitivo (con il pregio della sintesi) "Il Suicidio dei Samurai": un gioiellino di alternative rock in grado di stare a fianco di mostri sacri della recente scena italiana come Marlene Kuntz e Afterhours. La conferma definitiva dunque, la chiave di accesso al sacrario rock di noi altri. Ed ecco che però i Verdena non si siedono sugli allori, anzi, fanno uscire dopo tre anni "Requiem", un'altra prova di coraggio e sperimentazione, dove prevale l'attitudine psichedelica e dove si allarga sensibilmente lo spettro sonoro.

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Le cose gratis, di solito, sono le più belle

racconto Matteo Castello gratis
“Devo cercami una religione”.
“E perché? Che te ne fai di una religione?”.
“Non so... Forse mi aiuterebbe a vivere meglio. Dicono che credere in qualcosa dia più motivazione”.
“Motivazione in cosa?”.
“Ad esempio... Non saprei. Forse nella sopportazione. E comunque almeno la religione è gratis”.
“Non è vero! La quota mensile alla parrocchia o alla moschea o alla sinagoga di distretto dove la metti?”.
“Va bene! Hai vinto! Allora devo cercarmi un Dio, occhei?”.
“Rimane il fatto che non capisco a cosa ti serva un Dio”.
“...È gratis. L'unica cosa gratis rimasta al mondo. E le cose gratis, di solito, sono le cose più belle”.
“E allora trovati una religione, Julie. Però io ora mi metto a dormire, sono stanco”.

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Tomorrow - Tomorrow (Parlophone, 1968)

recensione album Tomorrow Parlophone
I. Introduzione – Fare musica negli anni Sessanta

Gli anni Sessanta iniziarono nell'estate del 1956, finirono nell'ottobre del 1973 e culminarono poco prima dell'alba, il 1 luglio 1967, durante un'esibizione dei Tomorrow all'UFO Club a Londra”.

Così il produttore statunitense Joe Boyd, nel suo “White Bicycles. Making music in the 1960s”, descrive quell'incredibile lungo decennio. Un periodo di straordinaria vitalità artistica, culturale e politica, dove sembrava esistere una consapevole commistione tra le tante ramificazioni di un pensiero progressista generalizzato ed egemone. Un progetto complessivo di rinnovamento sociale e culturale che poteva contare su di un sentire diffuso, serpeggiante: un sentire che si sviluppava a partire da trasformazioni e rivendicazioni comuni, dai fermenti anti-imperialistici (particolarmente cari agli studenti americani chiamati alla leva), dalle nuove esigenze di welfare, consumo e democrazia, tra reciproche “invasioni” musicali da ambo i lati dell'oceano (quella british negli Usa e, contemporaneamente, quella rythm and blues in Uk). 
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FKA twigs - LP1 (Young Turks, 2014)

Creare un piccolo universo sonoro nello spazio di due EP ed un album. EP, EP2, LP1: un percorso progressivo, un'evoluzione spiazzante.

Diciotto pezzi. FKA twigs, aka la giovane (classe 1988) Tahliah Barnett, fa con l'r&b quello che -per fare un esempio- James Blake ha fatto con ciò che restava del dubstep: superare il definibile (le etichette “post” e “future”, per intenderci), plasmando nuovi stilemi, deformando il linguaggio per arrivare a grammatiche inedite, mischiando stimoli esterni ed applicando all'insieme una propria distintiva visione.

E si parla proprio di visione nel caso di FKA twigs. Tahliah Barnett produce, scrive, suona, canta. Quello che si dice il controllo. Non solo: mastica con naturalezza e tensione iconoclasta una tale vastità di linguaggi (facendo sfumare i confini tra art pop, trip-hop, garage, r&b, elettronica) da far impallidire certi veterani. Certo, sarebbe disonesto dimenticare la schiera di personale messo al servizio di LP1 (Arca, Paul Epworth, Clams Casino, Devonté Hynes, Sampha, Emile Haynie), ma l'album rimane il fulgido manifesto di una fantasista fuori dagli schemi, padrona assoluta di un'espressività inedita. 
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The Adverts - Crossing the Red Sea with The Adverts (2011 Reissue, Fire Records)

"Despite -or maybe because of- the hostile shouting from the audience between numbers, and our own appalling performance for the first half of the gig, suddenly we started to pull together. It was a typical Adverts moment”" - T.V. Smith

Così Tim “T.V.” Smith, frontman degli Adverts, ricorda uno dei concerti del periodo d'oro della band. Primi mesi del 1978, "Crossing the Red Sea With the Adverts" è uscito da poco. Roundhouse, Londra. Un concerto che rivive -in parte- grazie ad un vecchio registratore piazzato dal nuovo batterista John Towe all'insaputa del gruppo. Un registratore davvero vecchio, che richiedette una delicata procedura di “tape baking” per stabilizzare gli ossidi di ferro sulla superficie del nastro (avete presente i "Disintegration Loops"?). Niente da fare: la prima parte della registrazione era fottuta (“"Non mi è dispiaciuto”", scrive T.V. Smith raccontando di una prima metà del concerto brutalizzata dalle urla degli skinhead e dai lanci di bottiglie ed oggetti vari). Ecco però che a partire da metà esibizione tutto inizia ad andare nel verso giusto: la band ingrana, la qualità sonora è accettabile e il concerto fila nel migliore dei modi.

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Train Kept A-Rollin

racconto Matteo Castello Gene Vincent
Il treno colpisce la macchina con tutta la sua forza, tanto da farla prima sobbalzare come per un grande spavento e poi capovolgere su di un lato e qui, sospinta in un complesso frasario di scintille sulle rotaie, accartocciarsi progressivamente, finendo col ruzzolare esausta sul ciglio di un fossato erboso. Roba da applausi. Il conducente non ha nemmeno il tempo di capire che cazzo stia succedendo: il colpo è secco e violento, lo finisce subito. Il resto -cosa accada a quel torso ingiubbettato, a quei jeans stretti e lisi, a quegli stivali di pelle nera con le punte consumate, a quelle labbra cristallizzate all'insù, tra lo schifo e lo stupore- lo immaginerete benissimo da voi.
Succede però che l'urto innesca una strana reazione di circuiti elettrici: il volume dell'autoradio si impenna e sale, tanto da rendere quasi inavvicinabile -più che per i resti, il fumo, la paura, la benzina che comincia a formare rivoli e pozze infiammabili- l'auto sbriciolata. Avrebbero scritto: “il conducente moriva ascoltando a tutto volume uno dei suoi artisti preferiti, Eddie Cochran, fonte di ispirazione come per la vita così per la morte”.
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Money - Suicide Songs (Bella Union, 2016)


I Money come teatro drammatico personale, come un palco su cui sfoggiare velleità interpretative altisonanti, intrusive, anche ingombranti. Certo, la scenografia, fin dal buon “The Shadow of Heaven”, faceva la sua bella parte, ma sempre con la funzione di inchinarsi alle esigenze di un Jamie Lee bisognoso di potersi muovere in un ambiente rarefatto, liquido, impalpabile. Una bella prova per un complesso rock: rendere la propria musica trasparente eppure tesa alla declamazione, al crescendo patetico. Una sorta di liturgia romantica dove trovavano uguale spazio le prestazioni a cappella del frontman -parti isolate, lasciate ad echeggiare nel vuoto- e le sonorità moderne di certo art-pop d'ambiente.

Una scommessa aperta, dunque, che finalmente possiamo valutare alla luce del tardivo seguito “Suicide Songs”, un lavoro che se da un lato riesce nell'operazione di sublimare ancor più gli elementi dell'esordio portando così al limite la tendenza estatica e vaporosa sopra descritta, dall'altro lascia maggior spazio (ed è un bene) al songwriting. Quindi sì, una dirompente ma disincantata emozionalità (un tempo c'era il bisogno dichiarato di essere parte di qualcosa, di unirsi ad un sentire collettivo più o meno reale, oggi questa esigenza sembra esser venuta meno: “Standing in the doorway, laughing, Singing songs to myselfcanta Lee in "I'm Not Here", reclamando una gelosa intimità), tesa però a dar vita ad uno “spectacle of beauty” più strutturato, volto non ad atterrare l'ascoltatore (ci penserà agli ascoltatori Lee?), ma ad elevarlo, piuttosto.
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East India Youth - Culture of Volume (XL Recordings, 2015)


Il fortunato “Total Strife Forever” (2014, Stolen) aveva subito imposto William Doyle, in arte East India Youth, come grande promessa del synth-pop britannico. Una promessa che oggi, con il secondo “Culture of Volume”, conferma pienamente le attese più esigenti, portando su un livello di assoluta eccellenza le ottime intuizioni che facevano capolino nel primo album. Già, perché in fondo, nonostante la risonanza, quel primo episodio appariva sì ricolmo di idee ma non ottimamente congegnato, anzi disordinato e irrisolto, tra suite di spessa elettronica e prove di electro-cantautorato che sembravano non trovare una vera e propria sistemazione organica nel flusso sonoro.

Culture of Volume” si fa invece portatore maturo di una visione a tutto tondo, erigendo un monolite di big music per sintetizzatori dove l'approccio all'arrangiamento è imponente, sinfonico: gli strati di synth si sovrappongono e si intrecciano per creare solenni mura di suono, gli elementi si affastellano come in un mosaico, creando gonfie e ricche matasse in sviluppo ascensionale, in continua dilatazione. Ogni cosa, però, è al servizio di un songwriting altrettanto creativo e frastagliato, capace di unire eleganza formale ad inediti sviluppi futuristici. Come non pensare ad uno Scott Walker digerito prima da Gary Numan e poi da Owen Pallett?
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Eefje de Visser - Nachtlicht (Eefjes Platenmaatschappijtje, 2016)



Vincitrice dell’edizione 2009 del “Grote Prijs van Nederland” (il più importante talent show dei Paesi Bassi) nella categoria singer/songwriter, Eefje de Visser è tra i grandi nomi del pop olandese. Solide basi folk in salsa elettronica, formosità soul e r&b: questi gli ingredienti dei primi due album (“De koek”, del 2011, e “Het is”, uscito due anni più tardi), entrambi impegnati a trovare il giusto sistema di pesi e contrappesi per bilanciare le varie componenti stilistiche, prediligendo già una certa creatività nell’assemblaggio (strumenti esotici, approccio cantautoriale, una particolare eleganza negli arrangiamenti). Serviva giusto la consacrazione, ed ecco “Nachtlicht”, in grado di elevare consistentemente la formula dell’artista di Utrecht, ormai padrona dei propri codici espressivi e del tutto a suo agio nella gestione di tempi, accenti, spazi. Il passo in avanti appare quindi un vero e proprio balzo, per una proposta con tutte le carte in regola per travalicare i confini nazionali, riuscendo nell’impresa di proporre un suono maturo, rifinitissimo e per molti versi inedito. 
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Rockstar

racconto Matteo Castello rockstar


Basta, la vita da rockstar non faceva proprio per lui. Se la immaginava diversa, tutto qui.

Suonava la chitarra da quando aveva scoperto tra gli scaffali del fratello maggiore un disco dei Led Zeppelin. In copertina c'erano delle figure bionde ed efebiche che si arrampicavano lungo una scalinata rocciosa sotto un cielo arancione. Era attraente, quella copertina. E poi quando aveva sentito per la prima volta Over the Hills and Far Away aveva deciso: io voglio fare questa cosa qui. 
La sua prima band si chiamava “Sbotto”, un trio inconsapevolmente punk che -dopo anni di prove e concertini domestici per pochi adepti- aveva esordito ufficialmente alla festa di fine anno della seconda liceo. Si era rotto il “re” e visti i tempi biblici per sostituire quella corda la cui mancanza, peraltro, non avrebbe compromesso la discutibile prestazione, ci si era dovuti arrendere e lasciare la scena al gruppo successivo.
Dopodiché c'era stata la cover band dei Nirvana, che non aveva attecchito perché nei locali andavano forte gli Ad/cD, ultra-trentenni dediti alla riproduzione perfetta dei brani degli AC/DC. 
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Sea Pinks - Soft Days (CF Records, 2015)



Dalle pelli dei Girls Names alla chitarra&voce dei Sea Pinks: è dal 2010 che Neil Brogan coltiva la sua creatura parallela, partita da strade lo-fi/shambling pop e arrivata, con questo “Soft Days”, ad un raffinato indie pop rafforzato da impalcature wave ed impreziosito da venature jangle. Le fascinazioni ottantiane sono sempre presenti, ma questa volta presentate in una veste maggiormente levigata, sia dal punto di vista della pulizia sonora che della cura in sede di arrangiamento: tutto è più nitido e definito, il fuzz in bassa fedeltà degli esordi sostituito da riverberi e armonie cristalline. 
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Jefferson Airplane - After Bathing at Baxter's (RCA Victor, 1967)



1967, l'anno in cui tutto esplode.
L'underground esce definitivamente alla luce del sole, anche grazie al crescente interesse del mercato, la controcultura è più consapevole, forte e fiorente che mai, la California è la terra promessa per artisti, intellettuali e attivisti politici. La musica rock americana ha saputo riportare tutto a casa (Bringing It All Back to Home...) alcuni anni prima grazie all'impegno di Bob Dylan, strappando alla Gran Bretagna il ruolo di centro culturale che ha mantenuto per tutta la prima metà degli anni '60.
L'America degli hippie e dei freaks ha saputo imporre la musica come esperienza totale, ha saputo nobilitare il rock facendolo diventare fenomeno sociale e politico, oltre che culturale, trascendendo i connotati di semplice passatempo che questo aveva sempre avuto, rivestendolo di spessore cerebrale e letterario, rendendo l'ascolto qualcosa di estremamente impegnativo, connotante e coinvolgente.
Gli eroi di questa rivoluzione sono molti: dalla satira colta e poliedrica di Frank Zappa, al decadentismo metropolitano dei Velvet Underground, all'esistenzialismo mistico dei Doors fino agli esperimenti acidi dei Grateful Dead. Un vero pullulare di intuizioni e illuminazioni, una irrefrenabile foga espressiva e creativa.
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DIIV - Is the Is Are (Captured Tracks, 2016)


Oshin”, la dipendenza da eroina, l’arresto, la disintossicazione (?) e ora, di nuovo, i DIIV. Il doppio “Is the Is Are” è un punto d’arrivo importante per Zachary Cole Smith, che sembra aver messo anima e corpo nei nuovi brani in scaletta: diciassette pezzi che appaiono come tanti sassolini lasciati sul percorso di una parabola turbolenta, come a voler lasciare tracce del proprio passaggio per evitare di perdersi del tutto.

Ascoltando il nuovo lavoro a firma DIIV è difficile notare un vero e proprio stacco tra l'esordio e questa nuova tappa: Cole è tornato letteralmente sui suoi passi, anche se questa volta sono maggiori i segni di disagio e irrequietezza. Non parlo solo di brani come “Blue Boredom (Sky's Song)”, “Valentine”, “Mire (Grant's Song)”, che nei loro andamenti cupi, tesi e noise risentono fortemente dei Sonic Youth di Bad Moon Rising (ma anche dei Cure di “Seventeen Seconds”), manifesta ossessione di Cole nel periodo di gestazione di “Is the Is Are”, ma di un mood complessivo, meno solare e spensierato rispetto all'esordio.
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Skate

Il clangore della tavola sui grind di metallo, lo scorrere sibilante delle ruote, il tonfo sordo degli scarponi sul grip. E poi lo sciabordare delle onde, poco più in là, verso la darsena, con le barche di ogni stazza ed età lasciate a ciondolare, stanche, al calare della sera, e altre in procinto di partire, con i pescatori intenti a preparare le reti, a imbarcare le energie per una notte in mare. I rumori del traffico, anche, che ben si accordavano a quella sinfonia raggrumata quotidianamente in Piazzale del Porto, in una cittadina né troppo grande né troppo piccola, incastonata in un golfo della riviera ligure. I ragazzi ci arrivavano alla spicciolata a partire dalle quattro di pomeriggio. Altri, però, erano già lì da tempo, come se non si muovessero mai da quei gradoni di cemento, da quelle rampe improvvisate, da quei bordi di pietra unti di paraffina e anneriti dall'usura causata dalle strisciate delle tavole da skate.
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Boogarins - Manual (Other Music, 2015)



Nel 1933 viene fondata la citta di Goiânia, nel 1968 viene pubblicato il manifesto tropicalista “Tropicália ou panis et circencis”, nel 2012 Fernando Almeida e Benke Ferraz formano i Boogarins, che riassumono quanto è stato lasciato fuori dall’ampio arco temporale sommariamente tracciato. Cresciuti in una città di oltre un milione di abitanti nel bel mezzo del Brasile, a poche centinaia di chilometri dalla capitale Brasilia, Almeida e Ferraz pubblicano nel 2013, con la newyorkese Other Music, il loro primo “As plantas que curam”, che mostra una dedizione estrema nel ridar vita a sonorità sixties in bilico tra suoni di casa (Os Mutantes, il primo Caetano Veloso, oscurità del calibro di Loyce e Os Gnomes) e psichedelia anglo-americana d’antan. 
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