Il folk come ricerca delle origini, come motivo di purezza da contrapporre ad una scena, quella rock'n'roll, screditata e distrutta (tanto dalle morti celebri quanto dagli scandali di fine anni '50). Ma attenzione: il folk anche come modo di vita bohémien, anticonformista, critico.
L'immagine dell'hobo quale romantico vagabondo rimaneva solo una fonte ideale di ispirazione, che si incarnava nel morente Guthrie, un santo di altri tempi alla fine del viaggio. D'altronde Tom Paxton metteva in guardia con fare paternalistico cantando “If you see me passin' by / and you sit and wonder why / And you wish that you were a rambler too / Nail your shoes to the kitchen floor / lace 'em up and bar the door / And thank the stars for the roof that's over you”.
Insomma, nel 1960 (anno in cui Dylan approdava a New York) i tempi stavano cambiando, e le nuove istanze giovanili avevano bisogno di canali adeguati per farsi strada e attecchire. Prima c'erano stati il jazz e la letteratura beat, ora c'era (di nuovo) il folk, depositario nel senso comune di autenticità e integrità. Cosa di meglio per far breccia nei cuori della gente? Curioso (ma in realtà no: “la verità è che gli immigrati tendono ad essere più americani di quelli che ci nascono”, parola di Chuck Palahniuk) che gli alfieri di questo revival portassero cognomi come Zimmerman, Van Ronk, Van Zandt, Baez: nomi che erano già l'espressione di un melting pot slegato dall'ideologia delle classi dirigenti, manifestazione di una dialett(n)ica corrosiva che si altalenava tra origini rifiutate, soggettività da affermare (pensiamo alla stagione delle lotte per i diritti civili), identità da costruire partendo dalle fondamenta. Tutto questo era il Greenwich Village. Tutto questo era il rinascimento culturale che a partire dai primissimi anni '60 sarebbe stato destinato ad influenzare il mondo intero.