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Il 2015 in 10 dischi




Ogni anno si può individuare una manciata di artisti su cui tutti si trovano d’accordo. Se l’anno passato era impossibile non parlare di FKA twigs, War On Drugs e Sun Kil Moon, questo 2015 ha visto il trionfo di nomi come Kendrick Lamar, Sufjan Stevens, Courtney Barnett e Father John Misty. Il ventaglio dei “satelliti”, però, è sempre più vario: e qui viene il bello. I dieci dischi che elenco di seguito sono una selezione degli ascolti più interessanti dell’anno ormai agli sgoccioli. Attenzione però, come tutte le classifiche qui non c’è niente di fisso o esaustivo: tra gli esclusi degni di attenzione sento di segnalare il bel pasticcio psichedelico di Miley Cyrus (“Miley Cyrus & Her Dead Petz”), l’ottimo ritorno dei Deerhunter (“Fading Frontier”), il coloratissimo lavoro dei colombiani Bomba Estéreo (“Amanecer”) e il magnetico esordio di LA Priest (“Inji”), senza dimenticare Dawn Richard (“Blackheart”) e 2814 (“新しい日の誕生”).
Ma ecco i miei 10:

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Recensione ► Swim Deep - Mothers (RCA, 2015)


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Li avevamo lasciati con un trillante gioiellino indie pop in salsa baggy e ora eccoli con un roboante, grasso e grosso caleidoscopio psichedelico. Per quanto “Where the Haven Are We” (2013, RCA) fosse un gran bel lavoro (songwriting frizzante, ricco di intuizioni, per ricche tavolozze pop), con “Mothers”, registrato tra Bruxelles e Londra con l'aiuto del producer Dreamtrak, le cose si fanno immensamente più serie.

We pushed our tinyugly heads to the limit”, racconta il frontman Austin Williams, rendendo bene l'idea del nuovo corso preso dai suoi Swim Deep, apparentemente impegnati a dar forma ad una sorta di “Screamadelica” del futuro (esagerazione? No, parola di Williams stesso). A partire da “One Great Song and I Could Change the World” si viene catapultati in un tripudio di sintetizzatori che scintillano e incalzano sullo sfondo, lanciandosi ora in arpeggi spaziali ora in dense frasi melodiche. Ogni suono è trattato, riverberato, espanso, come se fosse riprodotto in orbita, mentre il brano muta continuamente forma, passando in rassegna riff di chitarra glam settantiani, pigli alternative dance anni Novanta, ruvidità psichedeliche futuriste. Se “To My Brother” aggiorna i suoni Madchester grazie ad un'efficace rilettura dei canoni balearic/acid house che, pur in memoria di gente come Happy Mondays e Paris Angels, riesce ad integrare elementi inediti (come ad esempio il codazzo psych da capogiro), un brano come “Heavenly Moment” si butta a capofitto in un astrattismo drogato, liquido, disturbato da increspature glitch, rivelando quanto i “limiti” dei cinque musicisti siano stati messi alla prova.
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Recensione ► Placebo - Placebo (Elevator, 1996)


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Come suonava il primo lavoro a firma Placebo a chi lo ascoltava in quel luglio 1996, in quel tripudio sonoro di britpop, indie, post-rock ed elettronica? Troppo giovane, allora, per ricordarmi di un androgino Brian Molko alle prime armi, ricorro all'aiuto di materiale d'archivio.

- “La rivincita del rock androgino. Ruvido, molto poco rassicurante, emotivo fino al midollo […] una consistenza nettamente superiore alla maggior parte delle band sue contemporanee in campo rock” (Rumore).

- “They are, you see, not a band for half measures […] Placebo are about as far from the drab Britpop terraces as it's possible to get without building an igloo” (NME).

- “Placebo are a serious band. They’d never ever align themselves with such banal, fifth generation nonsense and lowest common denominator product […] the most exciting and potentially most important new band to leap above the parapet this year” (Melody Maker).

- “Molko is the ultimate rock chick anyway, and Placebo might just turn out to be the real thing. After Britpop's abysmal showing in the U.S., the band stands destined to be the saving grace for British music stateside, even though none of its members hail from the U.K” (Rolling Stone).

- “Le premier album de Placebo réconcilie le rock avec ses déserteurs : fulgurance, frustration, panache et dynamique. Depuis les Pixies et Nirvana, on n'avait pas entendu rock aussi violemment voluptueux, aussi sauvagement tendre que dans les chansons troublantes de Brian Molko, star déjà authentifiée par Bowie ou Iggy Pop” (Les Inrockuptibles).
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Recensione ► Martin Courtney - Many Moons (Rca, 2015)


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Mancava solamente Martin Courtney alla prova dell’album solista. Se Bleeker e Mondanile hanno alle spalle carriere più o meno convincenti ma di certo affermate, Courtney, fino a questo “Many Moons”, era rimasto ancorato all’esperienza Real Estate. La pubblicazione dell’esordio in solitaria è importante, quindi, perché ci permette finalmente di analizzare l’ultimo dei tre tasselli in isolamento, scoprendo -come se ce ne fosse stato bisogno- che proprio a Courtney spetta il ruolo di “mente” della band. Non solo: se i Real Estate non potrebbero esistere senza Martin Courtney, forse lui -al contrario dei due soci- sarebbe in grado di farcela da solo.
In “Many Moons”, infatti, ritroviamo lo stesso senso rilassato della scrittura (sognante, aperta), le stesse briose cadenze jangly, le fragranze guitar pop che si respirano in “Days” o in “Atlas”; eppure tutto è come semplificato, sgravato dalle contaminazioni contemporanee tanto care a Bleeker e Mondanile.
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Recensione ► Bert Jansch - Moonshine (Reprise, 1973)



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Va bene, il genio conta. Anche i maestri, però, hanno il loro peso: lo scozzese Bert Jansch impara a suonare la chitarra prima da Jill Doyle, nientemeno che la sorella di Davy Graham, uno dei nomi chiave del folk-revival inglese, poi da Archie Fisher e infine da Len Partridge, “a guy who’s a lifelong friend but he doesn’t playin public. He taught me a lot of blues”. A contare è anche il contesto, l’ambiente: in questo caso il “The Howff”, il folk club fondato da Roy Guest ad Edinburgo, sorta di santuario del folk britannico che vide passare gente come Sonny Terry e Pete Seeger. E poi ci sono le frequentazioni: Robin Williamson e Clive Palmer, ad esempio, i geniali futuri fondatori della Incredible String Band, con cui Jansch condivide ad inizio anni Sessanta un appartamento a Edinburgo.
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LOOP


Loop: qualcosa che si ripete incessante, ipnotico, in assenza di variazioni sostanziali. Così tutto sembrava scorrere da mesi, un lento susseguirsi di gesti e persone che assecondavano le loro abitudini (chissà da quanto) con rassegnata noncuranza. Si potrebbe dire con un buon grado di comfort. Tutte le mattine, fatta eccezione per il week end, lo stesso padrone con lo stesso cane (un golden retriever giallo [o meglio marrone chiaro, che forse una volta assomigliava ad un beige pallido]) attraversava la strada dopo aver concesso alla bestia la consueta sgranchitina alle zampe (il cane camminava piano [chissà come era da cucciolo, chissà se era abituato a fare lunghe corse e a ruzzolare per i prati]). Un impiegato appena sceso dalla sua utilitaria si incamminava verso gli uffici della banca che lo aveva assunto (quanto tempo fa? Cosa voleva fare quest'uomo a vent'anni?). Una vecchia tornava a casa dopo le compere mattutine, segno di una precoce preoccupazione riguardo a cosa preparare per pranzo (perché rincasava così presto? Non dormiva? Si svegliava alle cinque quando fuori era ancora buio e lei invece già accesa? [e la sua vita era stata una lampadina fioca o una torcia ardente?]).
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Siouxsie and The Banshees - Juju (Polydor, 1981)


Ogni scena musicale ha i suoi luoghi chiave, le sue geografie di riferimento. Nel caso del punk il luogo in questione (come racconta Jon Savage nel suo “Il sogno inglese”) è il distretto di World's End, alla fine di King's Road. Più precisamente: è il locale al pianterreno, il numero 430, l'epicentro di quella stagione. Lì sorge uno dei tanti edifici di epoca vittoriana che, a partire dagli anni Sessanta, diventa sede della boutique per dandy-hippie di Michael Rainey. E che c'entra col punk? C'entra, perché un decennio dopo lo stesso locale si chiama SEX ed è gestito da Malcolm McLaren e Vivienne Westwood. Il resto della storia lo conosciamo. Fatto sta che i corsi e ricorsi del 430 di King's Road scandiscono le fasi che portano all'affermazione -quantomeno quella estetica- del punk. Vedendo sfumare la stagione flower power il negozio, grazie a McLaren, cambia stile: prima abbraccia il revival teddy boy, confezionando giubbotti di pelle cui vengono applicate le prime borchie, poi sposa una bizzarra e sessualmente ambigua vena situazionista. E il punk è servito. Abbasso i fiori, la pace e tutto il resto e viva la degenerazione e la sgradevolezza. Purché integrate in un discorso pop. I Sex Pistols sono, a questo punto, le cavie perfette.

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Bob Dylan - The Freewheelin' (Columbia, 1963)



Il folk come ricerca delle origini, come motivo di purezza da contrapporre ad una scena, quella rock'n'roll, screditata e distrutta (tanto dalle morti celebri quanto dagli scandali di fine anni '50). Ma attenzione: il folk anche come modo di vita bohémien, anticonformista, critico.
L'immagine dell'hobo quale romantico vagabondo rimaneva solo una fonte ideale di ispirazione, che si incarnava nel morente Guthrie, un santo di altri tempi alla fine del viaggio. D'altronde Tom Paxton metteva in guardia con fare paternalistico cantando “If you see me passin' by / and you sit and wonder why / And you wish that you were a rambler too / Nail your shoes to the kitchen floor / lace 'em up and bar the door / And thank the stars for the roof that's over you”.

Insomma, nel 1960 (anno in cui Dylan approdava a New York) i tempi stavano cambiando, e le nuove istanze giovanili avevano bisogno di canali adeguati per farsi strada e attecchire. Prima c'erano stati il jazz e la letteratura beat, ora c'era (di nuovo) il folk, depositario nel senso comune di autenticità e integrità. Cosa di meglio per far breccia nei cuori della gente? Curioso (ma in realtà no: “la verità è che gli immigrati tendono ad essere più americani di quelli che ci nascono”, parola di Chuck Palahniuk) che gli alfieri di questo revival portassero cognomi come Zimmerman, Van Ronk, Van Zandt, Baez: nomi che erano già l'espressione di un melting pot slegato dall'ideologia delle classi dirigenti, manifestazione di una dialett(n)ica corrosiva che si altalenava tra origini rifiutate, soggettività da affermare (pensiamo alla stagione delle lotte per i diritti civili), identità da costruire partendo dalle fondamenta. Tutto questo era il Greenwich Village. Tutto questo era il rinascimento culturale che a partire dai primissimi anni '60 sarebbe stato destinato ad influenzare il mondo intero.

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Rumore



C'è sempre qualcuno che tossisce durante uno spettacolo. Prima che inizi un concerto, ad esempio: tutto è pronto, l'orchestra ha finito di accordare gli strumenti, gli occhi dei musicisti sono fissi sullo spartito, il direttore è ritto e concentrato. Gli ultimi istanti di silenzio teso prima che un gesto definitivo dia il via al movimento introduttivo. Proprio in quel frangente di attesa, però, è certo che a qualcuno scappi un colpo di tosse -di quelli improvvisi, impossibili da trattenere- o che cada qualcosa sul pavimento da una tasca, o ancora che uno spettatore, sentendosi scomodo (o forse poco a suo agio in quell'improvviso magnetismo), aggiusti la sua posizione quel tanto da far scricchiolare il legno della seggiola.
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Del resto, che c'importa

Si amoreggia dove si può
sconsideratamente
o forse no
'ché non siamo macchine
anche quando ci avvinghiamo
non ci diamo un tempo
un ritmo, un orario
e la voglia è padrona
E del resto
che c'importa:
ci sfuggono le ore
tra i baci
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