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Prologo


Mi stropiccio gli occhi ed esco lentamente dal letargo. Dove sono? Una coltre di luce mi circonda e mi impedisce di distinguere il sole dai muri color pastello che mi circondano. Lentamente i riflessi accecanti si attenuano, le mie pupille si stringono e smettono di fissare il vuoto.
Sono in una stanza d’ospedale, che sia ancora tutto un sogno? Le pareti mezze bianche mezze azzurrine mi circondano come camici bianchi. Sono a letto, solo in una stanza vuota. Dalla finestra entra una luce accecante, calda e viva. Intravedo slanci di pioppi da qualche parte là fuori. Un formicolio mi assale gambe e braccia costringendomi a paralizzarmi all’istante. Fitte cominciano a pervadermi il corpo e tutto d’un tratto passo dal mio risveglio stupito alla mia sofferenza più atroce. Sembra che il mio corpo si stia risvegliando lentamente da anni di forzata paralisi. Le mie dita chiedono di afferrare qualcosa, le mie gambe vogliono correre, le mie braccia dimenarsi e perfino la lingua non ne vuol sapere di calmarsi. Il mio corpo che chiede vita. Movimento.
Fulmini cremisi di dolore mi s’infilano tra ossa e muscoli, per non pensarci stringo i denti e fisso l’armadio di metallo di fronte a me. Con rabbia. Sei tu la fonte del mio dolore, io ti ripudio, ti bandisco, vattene. Convulsioni. Il dolore si fa insopportabile, un picco lancinante e poi, lentamente, i lampi scemano in ruggiti isolati e la mia mascella si rilassa. Mi sento accaldato, questo tremendo risveglio mi ha fatto sudare freddo. Altre fitte mi scuotono ma questa volta sono docce gelate. Fremiti scomposti. Guardo le mie dita mentre le muovo, le apro, le chiudo, testo le mie nuove capacità. Sembrano a posto. Muovo quelle dei piedi sotto le coperte e anche quelle sembrano essere tutte intere e funzionanti. Mi sposto su un fianco, poi l’altro. Tutto ok.
Ma allora che ci faccio in un ospedale? Aspetto che le risposte entrino, in camice bianco, e mi facciano chiarezza.

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Faccia in un locale con musica

Scorreva giù lungo le briciole di un pensiero la lama di quel volto che spaccava l'atmosfera con ciglia-coltelli di espressività netta Fendenti di luminoso spirito addensato in trame di strade e posti e accenti E tshic-shaboom suonava l'arte vomitata gorgogliante della musica che straripava e colmava le parole & i gesti Tutto allacciato al tempo frenetico pazzo di una caverna d'elettricità e birra e ormoni e voglia di scopare e stelle chiuse fuori -voi non potete entrare- vi berremo all'ora del digestivo

Matteo Castello
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Pedalare (terza parte)

Prima parte: qui

Seconda Parte: qui

Riemergo dai pensieri e sono di nuovo sulla strada, la mia pedalata è sciolta, respiro regolarmente e anche se c'è il sole battente non sudo più di tanto. La velocità ritrovata in questo tratto di piano ha fatto ripartire la testa, lasciando i muscoli ad accompagnare accondiscendenti il moto dei pedali. Senza sforzo. Intorno a me c'è meno vegetazione, lo stacco della precedente salita deve essere stato bello forte, e ora sono attorniato da pochi alberi solitari e da pareti di roccia che salgono a monte e ruzzolano in giù a valle con il loro manto di terra ed erba secca. Lei però è sempre lì, è rimasta impigliata agli ultimi pensieri e non schioda. Vedo i suoi capelli scuri -scuoto la testa e pedalo più forte- la sua pelle liscia -cristo basta, pedala e basta- i suoi occhi e una frase “non dobbiamo vederci più”. “Basta!”, mi ripeto, e sbuffando faccio saltare per aria le goccioline di sudore accumulate intorno alle labbra. Devo pensare alla strada, se no finisce che mi schianto sulle rocce. E sarà tutta colpa sua. Per fortuna di fronte a me, a poche centinaia di metri, ricomincia la pendenza, inerpicandosi in alto e sparendo a destra dietro ad una curva. E' già da un paio d'ore che sono in sella e ne avrò almeno per altrettanto. La mia occasione per dimenticarmi di tutto, almeno per qualche minuto, è lì a portata di mano. Voglio arrivarci il prima possibile, così mi alzo sui pedali, scalo la marcia e inizio a pompare forte, lasciandomi scorrere accanto il paesaggio brullo di montagna. D'un tratto riecco la fatica: è iniziata la salita, mi siedo e cambio nuovamente rapporto. L'aria che fino a poco prima mi accarezzava il corpo scompare, rimane solo un caldo opprimente accompagnato dai pochi rumori del paesaggio. Qualche cinguettio, fruscii di lucertole e serpenti sui pendii e il ritmico cigolare della bicicletta. Dovevo oliare la catena, ecco. La temperatura corporea balza in alto e ricomincio a sudare e a sbuffare, la testa libera e i pensieri spazzati via. Davanti a me questa strada dissestata che sale e sale. 
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Pedalare (seconda parte)

La verità è che a volte la realtà mi sfugge, la città dove vivo non sembra mia, le cose che succedono paiono collocarsi oltre una lastra invisibile che rende l'ambiente circostante qualcosa di esterno, di alieno. Come stare in uno di quei souvenir, quelle palle di vetro che una volta scosse simulano paesaggi in piena bufera di neve. Io sono lì dentro, nella bufera, e guardo fuori, immerso in una soluzione che rende le mie sensazioni ovattate e rallentate. Stento a percepire il mio stesso corpo, in quei momenti. E allora ho bisogno di impormi la mia stessa presenza con lo sforzo. Se manca l'aria devo costringermi a respirar più forte, cercando l'ossigeno con la bocca spalancata e i polmoni forzati in spasmi anaerobici. I matti affetti da disturbo borderline fanno più o meno la stessa cosa, ma tutto il giorno, tutti i giorni. Per percepire la propria corporeità si fanno del male, si tagliano e cose così. Io non credo di essere borderline, tanto che il dolore non mi piace e il sangue mi impressiona. Ma ogni tanto uno scossone mi viene da procurarmelo. Una bella botta di acido lattico e adrenalina. Tanto da non riuscire più a camminare una volta sceso dal sellino. È terapeutico e svuota letteralmente la mente dalle scorie accumulate dalla vita passata in questa soffocante città che non sento mia. Della quale non capisco gli abitanti. Che se ne sta fuori da questa lastra invisibile mentre tutto intorno a me vortica e mi stordisce.

Una città fantasma fatta di spettri abitudinari, incastrati in uno scorrere talmente prevedibile da inibire ogni fantasia, ogni pulsione vitale. È tutto già scritto, la ruota continua a girare con la stessa cadenza sonnacchiosa, soffocata dalla stessa cappa opprimente che costringe tutti a raspare il terreno, ad accontentarsi di piaceri riciclati. Una città dove ogni slancio speranzoso verso la felicità viene ridotto in polvere non appena l'illusione sfuma. E non solo: la depressione di ritrovarsi laggiù in basso, ad annaspare nei rimasugli fetidi delle ambizioni lasciate a marcire a terra, costringe in uno stato di desolazione che non ha eguali. A quel punto non c'è stimolo esterno che fornisca l'espediente per rialzarsi, c'è solo il ricordo di cos'era e cosa poteva essere, di cosa si è lasciato e di dove ci si ritrova ora. Le scappatoie sono poche e sono anguste, faticose. Questa è la mia città e la declinazione di una vita comune passata tra le sue strade e le sue case. Questo sono io che sono incastrato qui, con la mia depressione altalenante, fugata soltanto da sporadici momenti di evasione perlopiù frutto di elaborazioni mentali, di fantasie inutili. Vivere in una piccola città è come avere una dose costante di morfina a disposizione: ti culla in un rassicurante stato di torpore, dove ogni cosa pare chiara e nitida, in un'assenza di movimento che lenisce e accarezza. Fino a che non finisce l'effetto della botta. Perché allora ecco che tutto sfuma, si fa confuso, il paragone con l'esterno brulicante rende la notorietà dei gesti quotidiani una tortura da eterno ritorno.
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Pedalare (prima parte)

L'importante è continuare a pedalare. Ignorare quell'attimo in cui sembra che i muscoli debbano cedere da un momento all'altro, quando la salita s'impenna e il fiato si fa corto e affannato. Tenere duro, serrare i denti, stringere il manubrio su cui le mani iniziano a scivolare per il sudore. Non abbassare troppo il rapporto per non aumentare a sproposito il numero di pedalate al minuto, per non fondere il motore sempre più surriscaldato che manda avanti i muscoli delle gambe. Abituarsi alla fatica, conservare un ritmo, sbuffare e guardare ora avanti, ora in basso, seguendo una qualche scia invisibile sull'asfalto a grana grossa. E intanto il sole batte forte, sollevando dal sottobosco che fiancheggia la salita di montagna un odore pungente e balsamico, di terra arsa e arbusti secchi. Pensare che basterebbe una pioggerellina per rivoltare come un guanto la fitta vegetazione, rendendola rigogliosa e iridescente, sollevandone odori molli e discinti.

Nella testa non ho nulla se non la fatica. Il mio cervello conserva come unico compito quello di trasmettere impulsi elettrici consacrati all'energia cinetica, di trasformare un moto circolare in una trazione progressiva. Tutta la mia forza si scarica sui pedali e fluisce nella ruota motrice della bicicletta, in una cooperazione tra corona grande e piccola, in un abbraccio di catena unta di grasso, in un vorticare sempre uguale di raggi. Sono una elementare struttura energetica in azione e compio un movimento ripetitivo, ipnotico. Pensare che pedalo per stimolare la riflessione. Ora però faccio tutto tranne che riflettere. Per tornare a farlo mi occorre solamente il ritorno all'equilibrio. Lo strappo è stato duro, la pendenza ha fatto un balzo capace di scombussolare il precedente ritmo, quello sì pacifico e scorrevole. Il fiatone è il primo segno che qualcosa non va, poi aumenta la sudorazione e cominciano a pulsare le tempie. Si inizia a sentire il calore e allora ecco che si può dire di star facendo fatica. E scompaiono i pensieri. Rettifico: vado in bici per pensare ma soprattutto per non farlo. Cerco questi attimi sudoriferi in cui la mia natura è un fatto puramente fisico, non astratto. Un concentrato di azione con l'unico scopo del movimento, della contrazione muscolare, della messa alla prova dei tendini.

Matteo Castello
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Sometimes


Una ragazza di fronte a me, mezza assorta nel sonno. Ha il busto reclinato verso il finestrino e la fronte appoggiata contro il vetro. Porta pantaloni lunghi a fiori e un maglioncino un po’ scollato. La faccia gentile, il viso minuto, un paio di occhiali a montatura spessa le incorniciano il viso. Si muove appena, mezza assorta nel sonno. La guardo incantato finché la voce del conducente la risveglia frastornandola. Si guarda attorno un po’ spiazzata poi si gira verso di me, sorpresa – sorpreso anch’io – e mi chiede che fermata è questa. Se è la sua. No, la tua è la prossima. Mi guardo attorno. Ops. Anzi, è questa, scusa. Sorrido, sorride anche lei. È anche più bella di quando dormiva innocente. Il pullman si ferma, lei prende la sua roba e scende. Sposto lo sguardo altrove mentre la vedo abbracciare il ragazzo che la aspettava.
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Parabola










Sordo
alle esigenze molto giovanili
di un'accesa movida
consumata su tavolini
che trasudano
cocktail troppo colorati
Lancio accuse sommarie
al gusto del sampietrino
che invece di sorreggere
ambizioni terra-terra
dovrebbe mettere le ali
per parabole di poca saggezza
ma dall'indubbia
efficacia
contundente

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