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Dedica ad una tazza


Senti,
so che quello che sto per dire non ha molto senso...
ma devo dare libero sfogo alla mia follia capisci?
Scrivere qualcosa...
rompere gli schemi...

ho rotto una tazza.
Ero ubriaca
ed ero incazzata nera
perché lui non si era ancora degnato di baciarmi quella sera

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Per un'armonia triste

Questa non è una poesia
perché le poesie
rimangono ingarbugliate nell'anima
e io non voglio fare rumore

Sono solo
poche parole per un'armonia triste.

Mi manchi e ti amo amico mio
E lo so che non dovrei proprio dirlo
Ma quando ti senti solo
e - lei - è lontana
il mio cuore lo avverte
ed è triste
con te.
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Non guardare Jane Birkin


Lollo non era in quel posto per caso. Proprio per niente. Aveva sempre amato quel luogo sommesso, che lui trovava protettivo, separato dalla città pur trovandocisi incastonato.
Da piccolo, ci pensava proprio adesso mentre sedeva al tavolino di quel locale, si divertiva ad infilarsi in fondo al letto, dove aveva l'impressione che ogni cosa esterna scomparisse. Il bello erano le luci che filtravano dalle coperte: colori tenui, caldi, che rafforzavano la sensazione di trovarsi in una dimensione parallela. Non importava che ad appena pochi centimetri, al di là di quella coltre morbida e lanosa, ci fosse la scuola, il freddo, il corso di nuoto, i cani (che gli avevano sempre fatto una gran paura), eccetera eccetera. Non importava perché quel suo rifugio avrebbe continuato ad esistere e ad offrirgli riparo e conforto. 
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Vola via...

Sand guarda le macchine sfrecciare dal cavalcavia, ragazza mia, la vita è corta, non perderla a sognare, vola via.
Le mani legate all’acciaio come catene, sola come un cane tra le iene, lei pensa a spiagge lontane tra ruggiti di motore e urla di sirene.
Sulla strada sfreccia la peggio feccia ma lei non vede altro che una faccia tonda e gioconda che la guarda, le passa accanto, si volta e non aspetta.
La tristezza la circonda, la abbraccia e la conforta mentre una mano la accarezza e l’altra le recide l’aorta.
Dietro ogni pensiero si aprono mille porte ma se il sole non dorme ogni desiderio si perde all'orizzonte.
Forme contorte si aggirano nella mente più acuta ma la ragione non fa luce ed ogni sentiero conduce ad una grotta più buia.
Si fa sera, l’autostrada si fa muta e Sand ancora stringe la ringhiera e pensare alla caduta non la aiuta.
L’asfalto immobile e sterile rende la mente più labile e, per quanto nobile, ogni animo si scopre debole e instabile.

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Marilyn chi?


Era morta Marilyn. Lo gridavano un po’ tutti i giornali ma, quella mattina, Kim Carter si sentiva davvero in forma. Sui giornali, in bianco e nero, sembrava anche più bella ma le mancava qualcosa, vitalità. Immobile, sorridente ma… così morta. Da tutti gli angoli, in ogni edicola, la sua faccia gioiosa, allegra e vitale si stagliava enorme e radiosa. Kim Carter la fissava negli occhi, seduto in tram, sconvolto da quel “MARILYN DEAD” stampato a lettere cubitali appena sotto il volto angelico. Le lettere enormi, cariche di un significato che non riusciva a cogliere appieno, gli martellavano la mente come colpi di ariete. Non riusciva a concepire il vero significato di quella tragedia. Cosa gliene fregava a lui se era morta Marilyn? Era una donna come tante altre, non era sua moglie, non lo aveva mai amato, non l’aveva nemmeno mai vista dal vivo. Era bella, sì, stupenda, l’aveva sognata spesso, quanti viaggioni con Marilyn, però… Chi era Marilyn?
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Gnam Gnam


Il sole tramontò lentamente dietro le colline mentre Evie finiva di sgranocchiare il suo sandwich. Ormai duro, quasi avariato. I campi si tingevano di ambra e amaranto e gli ultimi raggi sfocavano languidi all’orizzonte. La luce le colpiva il viso frontalmente, lasciandole le spalle ancora illuminate e il viso quasi in fiamme. Una brezza leggera soffiava tra le spighe di mais che ondulavano pigre. Sembrava che il mondo si fosse fermato per un istante per osservarla mangiare senza che lei se ne accorgesse. Per guardarla lottare con quelle fette di pane povero, lattuga e forse prosciutto. Chiuse gli occhi mentre addentava lo spuntino e cercò di assaporare gli ultimi raggi che le attraversavano le palpebre.
Il sole scese ancora e il fascio di luce raggiunse la fronte di Evie e le baciò i capelli. Ancora pochi istanti e la campagna sarebbe stata invasa dall’oscurità, una tenebra assoluta, accecante. La ragazza lo sapeva e l’espressione soddisfatta e goduta si trasformò presto in una smorfia di ansia e apprensione. Doveva ripartire, non poteva più rimandare. Con rapidi morsi finì il panino che aveva sperato, almeno per una volta, di godersi fino in fondo. Raccolse gli stivali e se li infilò mentre i suoi pensieri saettavano già nel tramonto, verso casa.

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Oasi


Insegue la sua ombra
sotto i raggi della luna
alta tra le fronde
di alberi neri
oscuri come la notte.
Lago di stelle
in cui i sogni annegano.

Per cadere dal cielo
come meteore in fiamme,
così il mio cuore si accende
e arde
di una passione tanto violenta
che un solo corpo
non può contenere

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Poeta che vivi


Poeta che vivi,
poeta che amo.
La morte ha bussato alla tua porta
e hai abbracciato il dolore.
Le tue lacrime
si sono mischiate al profumo del muschio
e della pioggia d'estate,
gocce trasportate dal vento
che ti spettina i capelli in morbidi nodi
come baci.

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Anime a metà


è il relativismo del mondo.
L'istante che stiamo vivendo
per te potrebbe avere il sapore dell'eterno
e per me potrebbe non valere niente.
E viceversa
Immagina
si costruiscono intere storie
e castelli a metà
su fondamenta inesistenti
o semplicemente
quell'attimo che vivi con tanto ardore
per me è destinato a spegnersi alla prima luce.
E senza colpe o soluzioni o possibilità di scelta
quell'istante sarà per te una montagna da scalare
e per me un granello di sabbia che si perderà nel vento.

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Non puoi più smettere di vedere


Johnas si guardò attorno ma i suoi occhi non riuscirono a distinguere nessuna forma nell’oscurità più profonda.
<Cosa dovrei vedere?>
<Aspetta, non ancora>
Uno sfregolio, qualche scintilla e il bagliore di una debole fiamma illuminò lo scantinato. La luce lentamente invase le pareti e scoprì una moltitudine di oggetti coperti da teli logori e vecchie coperte. La stanza era più grande di quanto Johnas si sarebbe mai immaginato: sembrava svanire in quell’ammasso di forme scomposte che si perdevano a vista d’occhio. Ce n’erano di ogni dimensione, grandi come pianoforti armadi, comodini, sedie, divani. Erano un’infinità ma Johnas non riuscì a trovarne nemmeno uno che non fosse nascosto sotto un qualche telo. Le forme erano facilmente intuibili e nel loro insieme costituivano un grottesco ammasso di cubi e parallelepipedi.
<Wow, ma è… enorme!>
<Già. Non ci vengo spesso ma ogni volta mi sembra che ci sia più roba>.
Johnas non riuscì a trattenersi. <Cosa ci fa qui tutta questa roba? Perché è tutto coperto?>
<Non hai ancora capito?>
<Capito cosa?>
Non c’era niente da capire. Erano nello scantinato di una casa che, fino a poco prima, credeva fosse abbandonata. Loro due, soli.
<Intendi…> lei lo fermò posandogli un dito sulle labbra.

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Pagine morte

Scrivere mi era diventato insopportabile. La mia mente era come un mare in bonaccia, o un deserto privo di vita. Avevo smarrito ogni ispirazione, ogni energia, ogni pulsione creativa. Un vero problema, dal momento che avevo fatto dello scrivere la mia vita: da quelle parole d'inchiostro dipendeva la mia sopravvivenza, e ancor più il mio orgoglio e la mia rispettabilità. Il riconoscimento che derivava da questa attività mi era sempre stato fondamentale, forse anche più del denaro che, piuttosto copioso, ne derivava. Avevo conquistato, inutile negarlo, una certa notorietà nell'ambiente intellettuale della città dove vivevo. Il mio stile elegante e ricercato -così scrivevano i giornali- era una fonte di ammirazione costante, una chiave d'accesso ai salotti bene, ai circoli culturali più ambiti, alle frequentazioni più interessanti e stimolanti di allora. Avevo sempre desiderato accedere a quel mondo, seppure non me ne sentissi del tutto degno. Una sorta di inadeguatezza dovuta ad un carattere schivo (di natura certamente ereditaria), che però scompariva non appena veniva sommerso dall'adulazione altrui. Avevo creato un'aurea che mi precedeva, ogni volta, dispensandomi dall'arduo compito di dovermi mettere continuamente in gioco, di dover dimostrare che nulla della mia fortuna era scolorito col tempo.
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L'impiccato

Ora è tutto finito. È stato un attimo, uno strappo, ed eccomi qui a penzolare al freddo. La gente è rimasta per un po' a guardare il mio corpo rigido alla ricerca di qualche dettaglio morboso a cui pensare nei giorni a venire. Ci portano anche i bambini in occasioni come queste. Dicono che serve da esempio. Stronzate. Quando ho visto la mia prima esecuzione mio padre mi ha dato uno schiaffone e mi ha costretto a guardare. Non so nemmeno che cosa avesse fatto quel disgraziato, sarà stato un balordo come tanti altri. L'unica cosa che mi ha lasciato quell'esperienza è lo schifo: per questo paese pulcioso e per mio padre. La gente si ammassa sempre in occasioni come questa, ed è per questo che la gente mi ripugna peggio di un cane rognoso. La gente di qui passa la vita a marcire nel rancore e a guardare i poveracci crepare. Come per darsi uno scossone, o per convincersi che tutto sommato c'è chi sta peggio.
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Non temo la gente, parte 3


Parte 1: qui

Parte 2: qui

Il giorno dopo era stato tutto un fremito di collettivi, di fazioni e sotto-fazioni: bisognava imporre una linea il giorno venturo. Ma prima bisognava deciderla in casa propria, la linea. Ogni riunione preparativa era a sua volta un'assemblea sfiancante. In quella del mio gruppo, dopo ore ed ore di discussione, ripensamenti, litigi e compromessi di buon senso dell'ultimo minuto, si era arrivati ad una buona sintesi. Era stimolante mettersi alla prova in quella gara di idee, dove i vincitori venivano fuori solo dopo diverse scremature, grazie al contributo di tutti. Certo, c'erano i leaders, perlopiù gente in gamba con più esperienza e sale in zucca di noialtri, ma rivestivano un ruolo pedagogico (ovviamente non dichiarato) più che carismatico. A loro comunque veniva affidata la rappresentanza nelle grandi occasioni, segno di come la democrazia partecipativa era una buona cosa fino a che parlare in pubblico non iniziava a diventare una faccenda troppo grossa. Appena spuntava una telecamera o un ruolo di responsabilità ecco che si optava senza troppa vergogna per il vecchio e sano principio gerarchico.
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Non temo la gente, parte 2


Tra fine delle lezioni e sessione esami io e R. non ci siamo più visti per un bel pezzo. Che fine aveva fatto, dava gli esami? Nemmeno allo scritto del corso delle 16 si era fatto vivo. Poco male, io continuavo ad essere immerso nell'universo dissenziente, facevo mille conoscenze e credevo che tutto potesse cambiare solo perché noi lo volevamo. Non volevo dargli ragione, non credevo neppure l'avesse. Per quanto ragionevole, il suo sistema portava al rifiuto di ogni pratica collettiva, all'azzeramento in partenza di ogni possibilità di una presa di coscienza di massa. Mi sono confrontato con tante di quelle persone che subito la convinzione di essere nel giusto, per un attimo vacillata di fronte alla limpidezza del ragionamento di R., è ritornata dalla mia parte. Bisognava far presto e non appena ricominciato il semestre ricominciare a sensibilizzare, a volantinare, a scuotere il grigiore e l'afasia delle aule universitarie. In più avevo conosciuto una ragazza che era una favola, tanto vorace a letto quanto entusiasta nelle riunioni e nei cortei. Aveva i capelli neri e gli occhi grandi, rideva spesso -come piaceva a me- e la sua testa produceva pensieri uno dopo l'altro. Tutti belli e luminosi. Mi infondeva coraggio e fiducia. Quando camminavamo assieme per le vie della città sembrava che tutto si accordasse ai nostri passi, che tutto ammiccasse al suo sorriso, che ogni cosa fosse concorde alle sue idee. 
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Non temo la gente, parte 1


Lui nella vita sociale ci sguazzava, parola mia. Non ho mai conosciuto nessuno capace quanto il buon R. di destreggiarsi con tanta maestria attraverso la jungla delle relazioni, le rapide delle logiche di gruppo, le correnti dell'accettazione sociale. Sapeva cosa fare e cosa dire sempre e comunque, illuminava con il suo ego ogni ambiente dove fossero presenti più di due persone (lui escluso), aveva assi nella manica per ogni evenienza e necessità. Faceva tutto con garbo, mai sopra le righe. E vinceva, inutile dirlo, ogni mano.
Erano tempi strani quelli in cui ho conosciuto R., tempi che sono passati troppo in fretta, vissuti pienamente ma senza pensarci su troppo. Idea e realtà sembravano collegati: non lo erano affatto. Si agiva e basta, credendo di essere guidati da qualche ideale che però sfumava appena la foga collettiva scemava, lasciando come scarti solo stanchezza e incompletezza. Il tempo in quel periodo era una melassa che si contorceva e si modellava disordinatamente, creando strati su strati che si mischiavano, si addensavano, restavano appiccicati alla pelle. Se ti ci trovavi dovevi starci dentro, invischiato fino al collo. A volte mi capita di pensarci e sembrano passati decenni, altre invece è come se fossero trascorsi pochi giorni.
Eravamo diversi, io e R. Non credo che quel periodo per lui abbia avuto lo stesso valore, che si sia manifestato in maniera tanto prepotente. Tutto sembrava scivolargli addosso. Eppure lui era lì nel mucchio, come uno scoglio in mezzo al mare: la sua presenza era tanto fisica da fendere le correnti di folla senza esserne scalfito. Ne era piuttosto levigato, e riluceva statico del riconoscimento e dell'ammirazione altrui, che colava sui suoi bordi, schiumando e frizzando.
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Amore, forse è meglio se smettiamo di farci...

Si alza, la testa un po’ scossa. Il piede non trova la ciabatta, era sicuro fosse lì. Barcolla fino alla porta ancora mezzo confuso. Ha un vago sentore di urgenza per la testa – ah sì, la sveglia – e quasi non si rende conto che è già in cucina. Mentre cerca la caffettiera d’istinto, lascia che il cervello connetta lentamente, senza sforzi. La sensazione di urgenza passa, lo shock della sveglia è finito. Arriva un’ondata di malinconia mentre ormai la caffettiera è già magicamente pronta. 
Cri si ferma un attimo, la fissa e per mezzo secondo si chiede come ha fatto a montarla in questo stato d’incoscienza. Ripercorre due passaggi all’indietro e si ritrova impantanato in quella vischiosa malinconia mattutina. Perché, perché? Spalanca le tende ma la nebbiolina autunnale non lo aiuta. I lampioni arancio delle sei di mattina si vedono a stento in mezzo a tutta quella foschia. Evvai! Un’altra giornata che comincia col piede giusto.
“Caffèèè”
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Non mi puoi giudicare

Sospendere il giudizio per un po'. Una settimana, un giorno, qualche ora. Non sarà difficile, che ci vuole? Esco di casa, faccio le scale e sono fuori. L'aria è calda e le macchine scorrono veloci approfittando del semaforo verde. Una rallenta quando scatta il giallo, quelle dietro strombazzano rumorosamente. “Coglione, dovevi passare! È col rosso che si sta fermi, con il giallo acceleri e passi. P-a-s-s-a-r-e, capito?!” Scimmioni decerebrati, penso. Ma aspetta, no: nessun giudizio. Questo È, quello È, punto. Giudicare è come sputare nel piatto in cui mangi: lo avveleni e sei comunque costretto a mangiarlo. Quindi mangia e stai zitto. Cerco di convincermi che questo sarà l'atteggiamento giusto, cioè, quello che adotterò nel prossimo periodo indefinito. Fosse anche mezzora. Il mio terreno di prova ce l'ho proprio qui, appena scese le scale, fuori dal portone di casa. Così continuo lungo il marciapiede, pensando che in fondo è tutto così normale: la gente ha fretta, è ovvio che provi a superare il semaforo a tutta birra. Ed è altrettanto ovvio che chi attenta a questo proposito si becchi le clacsonate.
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I'll keep on running, you'll keep on flying


Ogni volta che mi ritrovo in fase di atterraggio mi chiedo quanto poco ci voglia perché qualcosa vada storto. Vedo già il pilota colpito da un colpo di sonno, un altro aereo che ci ingombra la pista o, più spesso, il nostro aereo che manca di misura l’atterraggio. Fino all’ultimo acqua, poi qualche albero sparso e, quando meno ci credi, ecco che spunta un lingua di cemento ad accogliere questo grasso uccello di lamiera. Se solo fossimo atterrati dieci metri prima. Venti. Mi cullo nella certezza dell’errore per scacciare finte paure che non riesco a radunare dentro di me. Ho più paura che l’aereo si possa schiantare o del fatto che ciò non mi mette alcun timore?
Che razza di persona sono diventato? Un aereo che precipita non è più nei miei piani, non mi preoccupa più. Non fa parte delle mie priorità. Che precipiti pure, abbraccerò la novità.
Aria di estero, vacanza, comincia a filtrare nel velivolo che si appresta a fermarsi. Welcome to Amsterdam. Welcome to Copenaghen. Welcome to Prague.
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Tu sai di quest'aria & Ode alla tua bocca


Tu sai di quest'aria

Sai di quest'aria che si
appanna d'umidità
mentre spargi la tua
presenza delicata
dentro me, guardandomi

Potessimo scolorire
come i bordi della sera
perdendoci nell'orizzonte,
o scioglierci nel cielo
come nuvole...

Siamo presenze solide
su cui scivola il tempo

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Uno dei tanti giorni inerti


Colgo il faticoso
disarticolarsi di giunture
intorpidite da
noia e freddo
Giornate anestetizzate
parodie di attimi vuoti 
Ipnotici rivolgimenti di senso
come abbrancati dal
laccio dello scorrere
inapparente e lento
Strascicarsi di pulsioni sorde
scricchiolare di pensieri
timidamente appesi alla
grandezza umana
Squarci di maestosità
in stanze inutili
spazzano le briciole
di quello che è solo
uno dei tanti giorni inerti

Matteo Castello
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Noia


I.
Sono annoiato. Non capisco come si possa celebrare la noia. C'è chi l'ha definita un “mostro delicato”, o chi l'ha considerata come lo scotto che devono pagare i grandi, una sorta di insoddisfazione che le anime eccelse traggono dal non essere appagate dalla mediocrità dell'esistente.
Io invece sono annoiato e mi sento uno schifo, un microbo, un nulla. Mi sento anche malinconico, il desiderio mi tormenta. Non so cosa desidero. Mi divora la tensione verso un traguardo indefinito, verso una totalità di cui non mi sento parte. Anzi, da questa totalità mi sento deriso, peggio: ignorato. Guardo dalla finestra e vedo un'immagine spenta e distante di un mondo estraneo, ostile, grigio. Sono un graffio, uno sbuffo, un grumo disordinato in una materia fluida e sciolta. Mi annoio, sono un'anima in pena. Malinconia e noia si confondono, si rincorrono, si mescolano in un eterno tira e molla, in un continuo arrovellarsi della pazienza. Il tempo si fa infinito nella maniera più scostante. Desidererei addormentarmi e poter saltare subito al domani, lasciando al sonno il compito di dipanare la matassa che blocca lo scorrere disinvolto delle ore.
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Prologo


Mi stropiccio gli occhi ed esco lentamente dal letargo. Dove sono? Una coltre di luce mi circonda e mi impedisce di distinguere il sole dai muri color pastello che mi circondano. Lentamente i riflessi accecanti si attenuano, le mie pupille si stringono e smettono di fissare il vuoto.
Sono in una stanza d’ospedale, che sia ancora tutto un sogno? Le pareti mezze bianche mezze azzurrine mi circondano come camici bianchi. Sono a letto, solo in una stanza vuota. Dalla finestra entra una luce accecante, calda e viva. Intravedo slanci di pioppi da qualche parte là fuori. Un formicolio mi assale gambe e braccia costringendomi a paralizzarmi all’istante. Fitte cominciano a pervadermi il corpo e tutto d’un tratto passo dal mio risveglio stupito alla mia sofferenza più atroce. Sembra che il mio corpo si stia risvegliando lentamente da anni di forzata paralisi. Le mie dita chiedono di afferrare qualcosa, le mie gambe vogliono correre, le mie braccia dimenarsi e perfino la lingua non ne vuol sapere di calmarsi. Il mio corpo che chiede vita. Movimento.
Fulmini cremisi di dolore mi s’infilano tra ossa e muscoli, per non pensarci stringo i denti e fisso l’armadio di metallo di fronte a me. Con rabbia. Sei tu la fonte del mio dolore, io ti ripudio, ti bandisco, vattene. Convulsioni. Il dolore si fa insopportabile, un picco lancinante e poi, lentamente, i lampi scemano in ruggiti isolati e la mia mascella si rilassa. Mi sento accaldato, questo tremendo risveglio mi ha fatto sudare freddo. Altre fitte mi scuotono ma questa volta sono docce gelate. Fremiti scomposti. Guardo le mie dita mentre le muovo, le apro, le chiudo, testo le mie nuove capacità. Sembrano a posto. Muovo quelle dei piedi sotto le coperte e anche quelle sembrano essere tutte intere e funzionanti. Mi sposto su un fianco, poi l’altro. Tutto ok.
Ma allora che ci faccio in un ospedale? Aspetto che le risposte entrino, in camice bianco, e mi facciano chiarezza.

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Faccia in un locale con musica

Scorreva giù lungo le briciole di un pensiero la lama di quel volto che spaccava l'atmosfera con ciglia-coltelli di espressività netta Fendenti di luminoso spirito addensato in trame di strade e posti e accenti E tshic-shaboom suonava l'arte vomitata gorgogliante della musica che straripava e colmava le parole & i gesti Tutto allacciato al tempo frenetico pazzo di una caverna d'elettricità e birra e ormoni e voglia di scopare e stelle chiuse fuori -voi non potete entrare- vi berremo all'ora del digestivo

Matteo Castello
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Pedalare (terza parte)

Prima parte: qui

Seconda Parte: qui

Riemergo dai pensieri e sono di nuovo sulla strada, la mia pedalata è sciolta, respiro regolarmente e anche se c'è il sole battente non sudo più di tanto. La velocità ritrovata in questo tratto di piano ha fatto ripartire la testa, lasciando i muscoli ad accompagnare accondiscendenti il moto dei pedali. Senza sforzo. Intorno a me c'è meno vegetazione, lo stacco della precedente salita deve essere stato bello forte, e ora sono attorniato da pochi alberi solitari e da pareti di roccia che salgono a monte e ruzzolano in giù a valle con il loro manto di terra ed erba secca. Lei però è sempre lì, è rimasta impigliata agli ultimi pensieri e non schioda. Vedo i suoi capelli scuri -scuoto la testa e pedalo più forte- la sua pelle liscia -cristo basta, pedala e basta- i suoi occhi e una frase “non dobbiamo vederci più”. “Basta!”, mi ripeto, e sbuffando faccio saltare per aria le goccioline di sudore accumulate intorno alle labbra. Devo pensare alla strada, se no finisce che mi schianto sulle rocce. E sarà tutta colpa sua. Per fortuna di fronte a me, a poche centinaia di metri, ricomincia la pendenza, inerpicandosi in alto e sparendo a destra dietro ad una curva. E' già da un paio d'ore che sono in sella e ne avrò almeno per altrettanto. La mia occasione per dimenticarmi di tutto, almeno per qualche minuto, è lì a portata di mano. Voglio arrivarci il prima possibile, così mi alzo sui pedali, scalo la marcia e inizio a pompare forte, lasciandomi scorrere accanto il paesaggio brullo di montagna. D'un tratto riecco la fatica: è iniziata la salita, mi siedo e cambio nuovamente rapporto. L'aria che fino a poco prima mi accarezzava il corpo scompare, rimane solo un caldo opprimente accompagnato dai pochi rumori del paesaggio. Qualche cinguettio, fruscii di lucertole e serpenti sui pendii e il ritmico cigolare della bicicletta. Dovevo oliare la catena, ecco. La temperatura corporea balza in alto e ricomincio a sudare e a sbuffare, la testa libera e i pensieri spazzati via. Davanti a me questa strada dissestata che sale e sale. 
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Pedalare (seconda parte)

La verità è che a volte la realtà mi sfugge, la città dove vivo non sembra mia, le cose che succedono paiono collocarsi oltre una lastra invisibile che rende l'ambiente circostante qualcosa di esterno, di alieno. Come stare in uno di quei souvenir, quelle palle di vetro che una volta scosse simulano paesaggi in piena bufera di neve. Io sono lì dentro, nella bufera, e guardo fuori, immerso in una soluzione che rende le mie sensazioni ovattate e rallentate. Stento a percepire il mio stesso corpo, in quei momenti. E allora ho bisogno di impormi la mia stessa presenza con lo sforzo. Se manca l'aria devo costringermi a respirar più forte, cercando l'ossigeno con la bocca spalancata e i polmoni forzati in spasmi anaerobici. I matti affetti da disturbo borderline fanno più o meno la stessa cosa, ma tutto il giorno, tutti i giorni. Per percepire la propria corporeità si fanno del male, si tagliano e cose così. Io non credo di essere borderline, tanto che il dolore non mi piace e il sangue mi impressiona. Ma ogni tanto uno scossone mi viene da procurarmelo. Una bella botta di acido lattico e adrenalina. Tanto da non riuscire più a camminare una volta sceso dal sellino. È terapeutico e svuota letteralmente la mente dalle scorie accumulate dalla vita passata in questa soffocante città che non sento mia. Della quale non capisco gli abitanti. Che se ne sta fuori da questa lastra invisibile mentre tutto intorno a me vortica e mi stordisce.

Una città fantasma fatta di spettri abitudinari, incastrati in uno scorrere talmente prevedibile da inibire ogni fantasia, ogni pulsione vitale. È tutto già scritto, la ruota continua a girare con la stessa cadenza sonnacchiosa, soffocata dalla stessa cappa opprimente che costringe tutti a raspare il terreno, ad accontentarsi di piaceri riciclati. Una città dove ogni slancio speranzoso verso la felicità viene ridotto in polvere non appena l'illusione sfuma. E non solo: la depressione di ritrovarsi laggiù in basso, ad annaspare nei rimasugli fetidi delle ambizioni lasciate a marcire a terra, costringe in uno stato di desolazione che non ha eguali. A quel punto non c'è stimolo esterno che fornisca l'espediente per rialzarsi, c'è solo il ricordo di cos'era e cosa poteva essere, di cosa si è lasciato e di dove ci si ritrova ora. Le scappatoie sono poche e sono anguste, faticose. Questa è la mia città e la declinazione di una vita comune passata tra le sue strade e le sue case. Questo sono io che sono incastrato qui, con la mia depressione altalenante, fugata soltanto da sporadici momenti di evasione perlopiù frutto di elaborazioni mentali, di fantasie inutili. Vivere in una piccola città è come avere una dose costante di morfina a disposizione: ti culla in un rassicurante stato di torpore, dove ogni cosa pare chiara e nitida, in un'assenza di movimento che lenisce e accarezza. Fino a che non finisce l'effetto della botta. Perché allora ecco che tutto sfuma, si fa confuso, il paragone con l'esterno brulicante rende la notorietà dei gesti quotidiani una tortura da eterno ritorno.
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Pedalare (prima parte)

L'importante è continuare a pedalare. Ignorare quell'attimo in cui sembra che i muscoli debbano cedere da un momento all'altro, quando la salita s'impenna e il fiato si fa corto e affannato. Tenere duro, serrare i denti, stringere il manubrio su cui le mani iniziano a scivolare per il sudore. Non abbassare troppo il rapporto per non aumentare a sproposito il numero di pedalate al minuto, per non fondere il motore sempre più surriscaldato che manda avanti i muscoli delle gambe. Abituarsi alla fatica, conservare un ritmo, sbuffare e guardare ora avanti, ora in basso, seguendo una qualche scia invisibile sull'asfalto a grana grossa. E intanto il sole batte forte, sollevando dal sottobosco che fiancheggia la salita di montagna un odore pungente e balsamico, di terra arsa e arbusti secchi. Pensare che basterebbe una pioggerellina per rivoltare come un guanto la fitta vegetazione, rendendola rigogliosa e iridescente, sollevandone odori molli e discinti.

Nella testa non ho nulla se non la fatica. Il mio cervello conserva come unico compito quello di trasmettere impulsi elettrici consacrati all'energia cinetica, di trasformare un moto circolare in una trazione progressiva. Tutta la mia forza si scarica sui pedali e fluisce nella ruota motrice della bicicletta, in una cooperazione tra corona grande e piccola, in un abbraccio di catena unta di grasso, in un vorticare sempre uguale di raggi. Sono una elementare struttura energetica in azione e compio un movimento ripetitivo, ipnotico. Pensare che pedalo per stimolare la riflessione. Ora però faccio tutto tranne che riflettere. Per tornare a farlo mi occorre solamente il ritorno all'equilibrio. Lo strappo è stato duro, la pendenza ha fatto un balzo capace di scombussolare il precedente ritmo, quello sì pacifico e scorrevole. Il fiatone è il primo segno che qualcosa non va, poi aumenta la sudorazione e cominciano a pulsare le tempie. Si inizia a sentire il calore e allora ecco che si può dire di star facendo fatica. E scompaiono i pensieri. Rettifico: vado in bici per pensare ma soprattutto per non farlo. Cerco questi attimi sudoriferi in cui la mia natura è un fatto puramente fisico, non astratto. Un concentrato di azione con l'unico scopo del movimento, della contrazione muscolare, della messa alla prova dei tendini.

Matteo Castello
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Sometimes


Una ragazza di fronte a me, mezza assorta nel sonno. Ha il busto reclinato verso il finestrino e la fronte appoggiata contro il vetro. Porta pantaloni lunghi a fiori e un maglioncino un po’ scollato. La faccia gentile, il viso minuto, un paio di occhiali a montatura spessa le incorniciano il viso. Si muove appena, mezza assorta nel sonno. La guardo incantato finché la voce del conducente la risveglia frastornandola. Si guarda attorno un po’ spiazzata poi si gira verso di me, sorpresa – sorpreso anch’io – e mi chiede che fermata è questa. Se è la sua. No, la tua è la prossima. Mi guardo attorno. Ops. Anzi, è questa, scusa. Sorrido, sorride anche lei. È anche più bella di quando dormiva innocente. Il pullman si ferma, lei prende la sua roba e scende. Sposto lo sguardo altrove mentre la vedo abbracciare il ragazzo che la aspettava.
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Parabola










Sordo
alle esigenze molto giovanili
di un'accesa movida
consumata su tavolini
che trasudano
cocktail troppo colorati
Lancio accuse sommarie
al gusto del sampietrino
che invece di sorreggere
ambizioni terra-terra
dovrebbe mettere le ali
per parabole di poca saggezza
ma dall'indubbia
efficacia
contundente

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