Scrivere mi era diventato
insopportabile. La mia mente era come un mare in bonaccia, o un
deserto privo di vita. Avevo smarrito ogni ispirazione, ogni energia,
ogni pulsione creativa. Un vero problema, dal momento che avevo fatto
dello scrivere la mia vita: da quelle parole d'inchiostro dipendeva
la mia sopravvivenza, e ancor più il mio orgoglio e la mia
rispettabilità. Il riconoscimento che derivava da questa attività
mi era sempre stato fondamentale, forse anche più del denaro che,
piuttosto copioso, ne derivava. Avevo conquistato, inutile negarlo,
una certa notorietà nell'ambiente intellettuale della città dove
vivevo. Il mio stile elegante e ricercato -così scrivevano i
giornali- era una fonte di ammirazione costante, una chiave d'accesso
ai salotti bene, ai circoli culturali più ambiti, alle
frequentazioni più interessanti e stimolanti di allora. Avevo sempre
desiderato accedere a quel mondo, seppure non me ne sentissi del
tutto degno. Una sorta di inadeguatezza dovuta ad un carattere schivo
(di natura certamente ereditaria), che però scompariva non appena
veniva sommerso dall'adulazione altrui. Avevo creato un'aurea che mi
precedeva, ogni volta, dispensandomi dall'arduo compito di dovermi
mettere continuamente in gioco, di dover dimostrare che nulla della
mia fortuna era scolorito col tempo.